Sono le condizioni dettate a Sara Mahmoud, 21enne milanese e musulmana, da un’azienda che cercava personale per fare volantinaggio. Depositato in tribunale un ricorso antidiscriminazione
Roma, 12 aprile 2013 – “Ciao, Sara. Mi piacerebbe farti lavorare perché sei molto carina, ma sei disponibile a toglierti il chador?”. “Ciao Jessica, porto il velo per motivi religiosi e non sono disposta a toglierlo. Eventualmente potrei abbinarlo alla divisa”. “Ciao Sara, immaginavo. Purtroppo i clienti non saranno mai cosi flessibili. Grazie comunque”. “Dovendo fare semplicemente volantinaggio, non riesco a capire a cosa devono essere flessibili i clienti”. Poi basta.
È lo scambio di mail Sara Mahmoud, ventunenne milanese figlia di immigrati egiziani, studentessa di Beni Culturali, e una società che cura eventi Fiera alla quale si era rivolta per fare un po’ volantinaggio, inviando curriculum e foto. Quel lavoro però è sfumato, come testimonia il dialogo via web, perché la ragazza, musulmana, ha i capelli coperti dallo hijab.
Non è la prima volta che le succede, ma stavolta ha deciso di far valere la legge, che non ammette questo tipo di discriminazioni. Stamattina gli avvocati Alberto Guariso e Livio Neri, da anni attivisti antirazzisti attraverso la Onlus Avvocati per Niente, presenteranno un ricorso al tribunale civile di Lodi.
Sara e i suoi legali chiederanno ai giudici di “accertare e dichiarare il carattere discriminatorio dei comportamenti” della società che le ha chiuso la porta in faccia perché usa il velo. “Anche la Corte europea – commenta su Repubblica l’avvocato Guariso – ha sempre sancito che le limitazioni che incidono sulla libertà religiosa possono essere introdotte solo a tutela di diritti personali altrettanto importanti, come la sicurezza o l´incolumità personale non certo per inseguire un presunto gradimento della clientela”.