La triste vicenda familiare di un italiano nato in Albania, ancora oggi in attesa di avere le spoglie del padre, morto nel carcere di Burrel nel 1952
Seconda parte – Il tragico destino
Continuazione di: L’odissea di un italiano nato in Albania
Pochi, tra i civili, compreso Giuseppe, avrebbero potuto immaginare la tragedia che stava per abbattersi sull’Albania, soprattutto tra i militari italiani; non per tutti era finita, anzi, per moltissimi proprio ora stava per iniziare un lungo calvario.
La “polveriera albanese” era esplosa!
Fu la confusione più totale, arrivarono voci concitate e contraddittorie, proclami, richiami, ordini ad incolonnarsi e raggiungere i porti ed aspettare improbabili navi che avrebbero riportato in patria le truppe. Moltissimi militari italiani vennero fatti prigionieri senza che neanche si rendessero conto di cosa stava succedendo. Altri ancora cercarono di raggiungere l’Italia con ogni mezzo ed altri, infine, si unirono ai patrioti jugoslavi, greci e albanesi sino alla fine della guerra. Circa 50.000 italiani rimasero a combattere nei vari movimenti di liberazione di Grecia, Albania e Jugoslavia. Altrettanti e forse più si dispersero nelle pieghe delle società locali: rimpatriarono nella grande maggioranza anni dopo. Notizie tragicissime continuarono ad arrivare per molto tempo dal fronte greco – albanese: migliaia di soldati furono catturati e deportati dai tedeschi in Germania.
Dal canto loroi civili italiani non se la passavano meglio, erano sorvegliati, sottoposti a interrogatori, perquisizioni e requisizioni dei propri beni. Era molto pericoloso esporsi.
La famiglia Terrusi/Poselli si era riunita e pressoché asserragliata al primo piano della Banca di Valona dove Giuseppe era il Direttore.
Nelle strade di Valona, purtroppo, iniziarono le rappresaglie dei tedeschi contro italiani e albanesi, la guerriglia tra i due gruppi albanesi militarizzati, il Movimento di Liberazione Nazionale – MLN e il Balli Kombëtar e le vendette tra le diverse famiglie autoctone. La Banca di Valona si trovò al centro delle mire dei diversi belligeranti. La prima volta fu “visitata” dai Tedeschi che avendo trovato vuoto il caveau misero in carcere Giuseppe Terrusi minacciandolo di deportazione. Il Direttore fu liberato qualche giorno dopo in seguito all’intercessione della Direzione Centrale della Banca.
Successivamente i partigiani di Hoxha forzarono i portoni della Banca, in assenza del Direttore, ed Aurelia, sola in casa, in preda al panico, si dovette calare dalle finestre del primo piano per correre al vicino Consolato Italiano e dare l’allarme. Anche in quel caso i predoni si dovettero accontentare di pochi spiccioli trovati sui banchi. Non passò molto tempo dalla liberazione di Valona che nell’aprile del ’45, tre mesi dopo la nascita di Aldo, Giuseppe venne arrestato per rappresaglia dagli albanesi del Movimento di Liberazione di Enver Hoxha.
Egli non era altro che un civile innocente e privo di colpe.
Il processo farsa, (tenutosi a porte chiuse), condotto da una Commissione Militare, nonostante tutte le testimonianze a favore del Direttore, tranne una evidentemente prezzolata e assolutamente inattendibile, giudicò Giuseppe colpevole di tre reati:
1- Essere Fascista
2- Aver rubato i soldi agli albanesi
3- Reclutare militari italiani per farli combattere con i tedeschi.
La sentenza doveva essere esemplare per dimostrare la forza del potere del nuovo Dittatore: 10 anni di carcere duro.
Accuse false ed odiose, esattamente contrarie al modo di vivere e di pensare di Giuseppe, (come possono testimoniare anche alcune frasi, riportate in queste pagine, delle lettere spedite alla sorella in tempi non sospetti) a cui fu perfettamente inutile opporsi. Soltanto dalla documentazione del processo, ritrovata nel 2011 a Tirana presso l’Archivio di Stato albanese, è stato possibile capire, se ancora ce ne fosse stato bisogno, con quanta ottusità, supponenza, cattiveria e ignoranza delle più basilari leggi morali e civili, si fossero mossi i giudici della “Corte di Enver”.
Ad Aldo rimase solo il vago ricordo di una figura d’uomo dietro le sbarre di un carcere.
Per quattro lunghi anni la famiglia subì le angherie dei partigiani ed il ricatto dei gerarchi della nomenclatura nella speranza di vedere liberato Giuseppe.
La moglie Aurelia, si rivolse a politici e istituzioni invocando clemenza per quell’uomo innocente ma la subdola risposta che ricevette fu sempre la stessa: “Lei, cosa può offrire in cambio?”. Al netto rifiuto di Aurelia di qualsiasi compromesso, le condizioni di Giuseppe nel carcere di Valona divennero sempre più dure.
A nulla servirono le gesta sportive di Giacomo, fratello di Aurelia, portiere titolare della Nazionale di calcio albanese costretto dal regime a cambiare nome in quello di Giacomino Buseli. La Squadra delle Aquile vinse, sorprendentemente, le “Balcaniadi”: una sorta di quadrangolare tra Albania, Jugoslavia, Bulgaria e Romania.
L’orgoglio nazionale per la vittoria insperata fu esaltato dal governo assumendo forti connotati politici e i calciatori furono innalzati ad eroi dello sport albanese.
Le preghiere di Giacomo all’amico Naku Spiru, capo della gioventù albanese,per salvare Giuseppe, caddero nel vuoto.Qualche giorno dopo il loro colloquio, arrivò la notizia della morte di Naku Spiru. La spiegazione ufficiale, da fonte governativa, specificava che Naku si era ammazzato involontariamente con un colpo mentre puliva la sua pistola. Evidentemente non andava a genio al regime e avevano trovato il modo per farlo fuori.
Giacomo doveva solo pensare a giocare bene e possibilmente vincere, Giuseppe doveva morire in silenzio senza creare fastidi.
Aurelia con il figlioletto, madre, padre, nonna e fratello, furono sfrattati dalla loro casa di Valona e costretti a trasferirsi, sotto stretta sorveglianza, in un’ abitazione alla periferia di Tirana. Una costruzione non ultimata, ancora allo stadio di rustico, abbandonata prima della guerra da chissà chi, senza porte né finestre, priva di servizi igienici, diventò la dimora della famiglia per una vita in ristrettezze.
Le prestazioni sportive di Giacomo, qualche risparmio, i lavori occasionali del nonno, imprenditore edile, consentirono la sopravvivenza, fino al momento della partenza.
Dopo tante peripezie nel 1949, senza alcun preavviso, privati di qualsiasi avere oltre i propri vestiti e 4 valige, tutti i componenti della famiglia furono comandati di portarsi con i propri mezzi al porto di Durazzo da dove sarebbero stati prelevati e trasportati, con uno sgangherato camion militare, a Valona e da lì imbarcati su una vecchia carretta del mare di nome “Stadium” con destinazione Italia.
Ad Aldo rimase il ricordo di una fredda notte di gennaio, nudo insieme a tanti altri, sotto le docce disinfettanti del porto di Brindisi. Il padre fu trattenuto prigioniero a Valona e successivamente trasferito a Burrel, un carcere politico, duro e senza speranza, dove morì di stenti nel 1952.
Sette anni dopo la fine della guerra! Perché? Al bambino rimasero solo i racconti della madre che egli visse come una tragica favola.
Aldo Renato Terrusi
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