Dalla prefazione di Silvio Berlusconi
Padre Zef rompe anni di silenzio e di morte sul gulag albanese con il coraggio di chi ama la libertà e si batte in suo nome. Egli apre il nostro cuore, lo riempie di commozione e di indignazione, per poi indurci a costruire qualcosa che somigli a ciò che è buono e giusto. La verità, come sempre, è che l’amore è più forte dell’odio. Quante tombe dovremo ancora scavare nella memoria dei popoli per trovare tutte le vittime del comunismo? A soli sessanta chilometri dall’Italia ci sono fosse comuni di martiri e giacimenti di dolore. Questo libro dà loro una voce postuma, sulla scia del grande Aleksandr Solženicyn. Nonostante questo obbrobrio, per molti anni il comunismo italiano ha guardato con simpatia ai compagni schipetari: c’era una vera e triste alleanza proprio nei mesi e negli anni in cui gli assassini al servizio del tiranno Enver Hoxha tiravano novegrammi di piombo nella testa di chiunque fosse sospetto. Oppure – come è raccontato nel libro – infilavano donne inermi dentro sacchi insieme con gatti affamati, e poi bastonavano i sacchi sicuri di provocare sofferenze atroci. Stalin, Tito e Togliatti stabilirono che l’Albania doveva diventare una specie di parco giochi dell’orrore comunista. Si prestava alla bisogna il fatto che tante regioni e vallate remote avessero una popolazione ancora legata a condizioni prefeudali (ma non per questo di civiltà inferiore). Ecco che dalla teoria si passò immediatamente alla pratica di un comunismo quale esperimento di scienziati politici criminali che ridusse una terra ricca di nobiltà a laboratorio di ingegneria sociale. Uomini custoditi come bestie dentro un enorme campo di concentramento, controllati e sottoposti a coercizione.
Questo volume andrebbe diffuso non solo in tutte le biblioteche e riadattato in una fiction televisiva, ma soprattutto andrebbe letto nelle scuole italiane per fare conoscere anche ai più giovani alcune tragiche verità della storia recente: come il comunismo ha conquistato il potere e come lo ha gestito ferocemente; quali pene ha sofferto il popolo albanese e in quali abissi di menzogna e di violenza è stato ingabbiato; di quale tempra sono stati quelle donne e quegli uomini che non hanno chinato la testa nonostante i supplizî a loro inflitti, perché si può resistere. Quando un despota crede di essere ormai senza opposizione e manca un millimetro perché si chiuda il coperchio con clangore metallico su ogni speranza, ecco che misteriosamente forze spirituali dissipano le tenebre con la loro testimonianza.
Migliaia di albanesi, segretamente ammirati da molti che in essi si riconoscevano, osarono opporsi a questo dispotismo. La loro resistenza di fronte alla tortura e alla morte è la prova che il bisogno di libertà è insopprimibile.
Sono lieto allora di salutare l’edizione italiana di questo memoriale di persecuzione e di gulag, ma soprattutto di rinascita. E devo citare la curatrice e traduttrice del volume, la cara Keda Kaceli, fieramente albanese e italiana insieme. Lei conosce per esperienza le atrocità qui descritte, ma anche il coraggio che trapela in ogni riga del libro.