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«Come se l’anno non avesse altri giorni»: Anilda Ibrahimi

Di Rosanna Morace, saggista di Letteratura italiana *

Arriva in una mattina di settembre, in un’arsa stagione dove le piogge tardano a venire. È vestita tutta di rosso. Come il sangue. Come un sacrificio umano dato in pasto agli dei per propiziare la pioggia. Come una sposa.

Inizia con queste parole Rosso come una sposa, il primo romanzo di Anilda Ibrahimi.

E con queste parole inizia anche l’attività di scrittrice della Ibrahimi: un’attività non voluta, non cercata, benché fin da giovanissima ella abbia praticato ‘il mestiere di scrivere’ come giornalista, in Albania prima, poi in Svizzera e infine in Italia. Ma la prosa letteraria della Ibrahimi non è mestiere, sgorga dalle storie che ella custodisce dentro di sé e alle quali dà vita attraverso la sua voce. Una voce che parla italiano.

Ma siamo davvero certi che questa voce parli italiano? Oppure si limita a scrivere in italiano ciò che potrebbe vivere, ed è vissuto, solo in albanese?

L’italiano di Anilda Ibrahimi parla albanese non solo perché nella prosa si impigliano traduzioni letterali dall’albanese, corsivi che ripropongono passi delle antiche rapsodie o marcano parole intraducibili, ma perché è questa la lingua in cui lei è nata; è questa la lingua che parlano i suoi personaggi; è dall’immaginario e dalla cultura albanese che scaturiscono le sue storie.

Ma il suo italiano parla anche italiano: perché è attraverso l’italiano, e l’Italia, che ella  trova il distacco (fisico, mentale, linguistico, culturale) per raccontare l’Albania. La lingua d’adozione diviene quindi un idioma neutro, super-partes, e la sua scrittura si nutre di una doppia prospettiva, interna ed esterna, che si sostanzia di un doppio immaginario e di uno sguardo bifronte, come l’aquila della bandiera albanese. E viaggiando su un doppio binario, il treno non deraglia, la prosa non commette sbavature, si nutre armonicamente tanto del passo epico-lirico delle antiche rapsodie e dell’oralità albanese, quanto di un’essenzialità limpida, concreta, materica: ovvero la “leggerezza” di cui parlava Calvino. Entrambi gli elementi si stemperano e si potenziano a vicenda, ed è questa la prima magia che compie Anilda Ibrahimi nella sua scrittura.

Parlo di magia non a caso: perché questa scrittura così limpida e poetica ha la capacità di trasportare le storie in una dimensione che sembra essere fuori dal tempo, a dispetto dei precisissimi contesti storici evocati. Anche perché, nei romanzi di Anilda Ibrahimi, passato e presente continuamente si impastano e si inseguono, a tratti sembrano divergere inesorabilmente, ma vi è poi un punto in cui si realizza una fusione assoluta. E ciò anche in virtù di un meccanismo narrativo preso in prestito dall’oralità e dall’epica, dosato con sapienza assoluta: le vicende, sempre corali, alternano sapientemente più storie, dislocate in archi temporali anche molto distanti tra loro, che si agganciano l’una all’altra come fossero un continuum. Non c’è mai narrazione cronologica: di capitolo in capitolo un filo narrativo si interrompe e ne incidenta un altro, e le diverse fila si rincorrono di continuo, creando nel lettore una continua attesa, una suspence protratta fino all’ultima pagina. Ed è per questo che i romanzi di Anilda Ibrahimi si leggono tutti d’un fiato, come si ascolta una canzone, o una ballata.

Sono, questi, tratti caratterizzanti dell’opera della Ibrahimi fin dal primo romanzo, Rosso come una sposa: una saga familiare e corale che attraversa quasi un secolo di storia albanese. La prima parte del libro è narrata con gli occhi di Saba (la sposa vestita del tipico costume nunziale albanese, rosso appunto, che abbiamo visto apparire nell’incipit citato), che verrà consegnata ad un uomo molto più grande di lei, che non la ama, che lei non ama, e che per di più era suo cognato. Dora, la nipote, riporta la vicenda ad un futuro più prossimo che si estende dagli anni del regime comunista fino alla sua caduta. L’atteggiamento della giovane nei confronti della passata dittatura è spesso sarcastico, il suo sguardo è disincantato ma beffardo, consapevole di ciò che accadrà. Non c’è alcun atto di accusa, non c’è denuncia, ma un lucido realismo che è stato scambiato per assenza di presa di posizione da parte della scrittrice (che, comunque, non andrebbe mai confusa con i suoi personaggi), laddove invece la denuncia è nei fatti stessi, raccontati con una lucidità senza orpelli che sa essere più tagliente di qualsiasi esplicitazione. D’altronde lo sfondo, anzi gli sfondi storici che Anilda Ibrahimi crea sono narrati con estrema precisione, perché il lavoro che ella compie è analogo a quello di uno storico che scavi nelle storie individuali e irripetibili che hanno reso possibile la Storia; e dunque molti sono i piani narrativi che si sovrappongono attraverso flash-back e anticipazioni. Il focus, infatti, non si esaurisce nella coppia nonna-nipote: c’è la madre di Saba, c’è il passaggio di Saba attraverso le varie fasi dell’essere donna; ci sono le varie sorelle di Saba, e le figlie, e la cognata, e tante, tante altre donne: figure secondarie di una storia corale tutta al femminile. Quest’incrocio di punti di vista, oltre a muovere la narrazione, ci dice di una società in cui le donne avevano un ruolo di rilievo, perché erano loro ad allevare i figli, a gestire la quotidianità, e ad agire con determinazione dietro le quinte di un’apparente società patriarcale.

Ma in Rosso come una sposa, così come in tutti i romanzi della Ibrahimi, c’è poi una società multietnica che convive pacificamente, in cui è indifferente dare requie a un morto con rito ortodosso, musulmano o cattolico; in cui non ha alcun senso volersi etichettare come ebrei, ortodossi o cristiani, perché le religioni hanno sempre convissuto pacificamente in Albania e il rispetto verso l’altro passa, innanzi tutto, dal riconoscere le specificità di ciascuna cultura senza giudicarla, etichettarla o incasellarla in spazi angusti che divengono stereotipi. E di questo dovremmo imparare a ricordarci, oggi, che le guerre di religione sembrano voler squassare il globo.

Ma nelle opere della Ibrahimi c’è anche una società fatta di figure ieratiche e tragiche, archetipiche, eroiche; una società che sembra stagliarsi in un tempo fuori dal tempo, in cui il legame di sangue è collegamento tra i vivi e i morti, in cui ai morti si canta ciò che succede ai vivi affinché il legame non si spezzi: e così le storie narrate si proiettano su più generazioni, le legano saldamente tra di loro e si espandono oltre il contesto storico che delineano, in un filo rosso sotterraneo e magico che unisce passato, presente e futuro: «Come se l’anno non avesse altri giorni» è, infatti, la frase che apre la ballata che Ajkuna ripete sempre dentro di sé, in L’amore e gli stracci del tempo, il secondo romanzo. E, come nel precedente, nell’incipit è già contenuta tutta la vicenda, con un modulo che se da un lato rimanda alla letteratura orale, dall’altro indica una ciclicità del tempo e del destino che è anch’esso tratto epico e ancestrale:

Al posto delle favole, lei aveva avuto le ballate, a modo suo era stata una bambina fortunata. Le storie venivano raccontate ogni sera vicino al camino, prima che il sonno la portasse in luoghi sconosciuti che le lingue di fuoco illuminavano insieme alla sua attesa. Prima che la legna si consumasse insieme ai suoi desideri.

Per tutta la vita, infatti, Ajkuna aspetterà Zatlan, l’uomo del quale è innamorata, il padre di sua figlia, il ragazzo serbo con cui è cresciuta in virtù di una promessa che i loro padri si erano scambiati. Ma Zatlan le sarà sottratto dal conflitto balcanico, e la cercherà per anni e anni, perché gliel’aveva promesso. E lei l’aspetterà per anni e anni, perché gliel’aveva promesso. E l’architettura dell’opera rispecchia questa separazione forzata, alternando di capitolo in capitolo le vicende dell’uno e dell’altra, l’amore smembrato da due esistenze che finiscono per divergere, facendo vivere al lettore l’attesa di un incontro che la vita e il tempo riducono a brandelli, trasformandoli in «lettere mandate al momento sbagliato».

Ma una lettera inviata nel momento sbagliato è anche Arlind, il figlio che Lila dona ad Eleni in ragione di una promessa, della besa data, che però distruggerà la vita di entrambe: su questo sfondo, il terzo romanzo della Ibrahimi, Non c’è dolcezza, forse il meno riuscito, che però, come gli altri, pone domande universali e senza risposta come la vita, alternando dolcezza e crudeltà, ironia e lucidità, forza propulsiva e debolezza, ricerca e identità.

Non stupisce, allora, che il tema della promessa sia tematizzato fin dal titolo nell’ultimo romanzo, Il tuo nome è una promessa, opera in cui la capacità della Ibrahimi di creare architetture complesse ma fluenti raggiunge il suo apice. I capitoli sono alternati senza mai apparire giustapposti, e se appena apriamo il libro ci troviamo nel XXI secolo, davanti a un’avvenente Rebecca che dall’America si trasferisce in Albania per lavoro, con il capitolo successivo siamo proiettati nella Germania nazista, qualche giorno dopo la Notte dei cristalli. La famiglia Rosen fugge, passa in Italia, raggiuge Bari e valica l’Adriatico, diretta a Durazzo, perché re Zog (unico in Europa) stava accogliendo gli ebrei in fuga. La tregua, però, dura poco: nel 1939 l’Albania viene occupata dai fascisti e quattro anni dopo dai nazisti, eppure gli ebrei non saranno consegnati ai carnefici, perché il popolo albanese, compatto, li protegge, non per convinzioni politiche o opposizione agli invasori, ma per mantenere la besa, la parola data. E per una tragica ironia della sorte, Besa è il nome che la piccola Abigail Rosen assume per nascondere le sue origini ebraiche, e che diviene incarnazione della promessa di un intero popolo a un intero popolo. 

Tuttavia, le vicende storiche qui accennate non sono che lo sfondo della vicenda, perché ciò che Anilda Ibrahimi narra, in tutti i suoi romanzi, sono le quotidiane resistenze, le piccole azioni cariche di umanità, le eroiche e sconosciute esistenze che hanno fatto la Storia. E così, come in Rosso come una sposa (che molti punti di contatto ha con l’ultimo romanzo), il vero fulcro di questa seconda epopea familiare è la coralità, ovvero l’apparizione di personaggi che rimangono scolpiti come fossero protagonisti: la genuina e materna Lule; lo ‘zio’ Idris, deportato a Dachau per proteggere la piccola Abigail; lo spietato Enver (anch’esso nomen omen), marito di Abigail; l’insegnante-poeta, capro espiatorio della dittatura comunista; e il ‘bolscevico’-custode che, per un gioco questa volta propizio del destino, chiuderà il cerchio nelle ultime pagine. Ma Rebecca, cosa centra in questa vicenda? Di capitolo in capitolo la domanda si fa sempre più pressante, e nella ricerca di questo tassello mancante il lettore si trova spinto a compiere l’indagine che Rebecca non compie, nonostante in modo quasi inconsapevole ella tenti di riannodare la sua vita nel Paese che le ha dato le origini: perché le ha permesso di esistere.

Il tuo nome è una promessa è, dunque, una vera e propria summa dei motivi che si rincorrono lungo tutta la produzione letteraria della Ibrahimi: atmosfere che sembrano fluttuare attraverso il tempo e lo spazio; una prosa lirica dal passo epico, che riesce ad essere al contempo leggera e concreta, musicalissima; che è capace di andare oltre ciò che racconta e di arricchirsi di un punto di vista mobile, problematico, in divenire. E poi i temi: l’attesa, la sacralità di valori indiscutibili quali l’amore, l’amicizia, gli affetti, l’ospitalità, la parola data, la ricerca delle proprie radici, dei propri legami di sangue, del proprio passato; lo sdradicamento quale “morte” per rinascere altrove, sotto un’altra forma, in un’altra lingua, e riappropriarsi in questa nuova pelle delle proprie origini, arricchendole e facendole divenire ancora più forti.

Ne risulta la terza magia che la Ibrahimi compie nei suoi romanzi: far parlare una cultura dentro l’altra, dando vita ad un’integrazione vera, che sta dentro l’oggetto, che non è declamata, retoricizzata, imposta da atti esterni che non arrivano oltre la teoria. L’immaginario albanese, il ritmo della sua lingua, la sua cultura, trasudano da ogni pagina, anche laddove i romanzi non siano ambientati in Albania, e possono parlare con questa limpidità proprio grazie a quella distanza che la lingua italiana permette.

Il connubio tra questi mondi è quello che, oggi, è chiamato ‘letteratura translingue”: una letteratura che valica i confini nazionali, ma che è esattamente l’opposto dalla cultura globalizzata e globalizzante, che tende a limare le differenze annacquando le identità e le specificità, rinnegando le memorie e le radici. Ed è da questa letteratura che stanno emergendo, non solo in Italia, le voci più affascinanti e le pagine più cariche di risonanze e speranze: perché valicano ogni individualismo e ogni nazionalismo con la genuinità di storie che vengono da lontano, ma che non sono velate di esotismo, paternalismo o pietismo: sono storie che annientano gli –ismi, sono storie forti, che ritrovano il legame con valori universali, antichi, trasversali, che sgorgano con tutta la loro verità ed eticità genuina.

Perché l’emigrazione è, e deve essere, incontro.  Ed è dall’incontro che nasce la vita.

*Questa recensione dell’opera di Anilda Ibrahimi è  l’intervento di Rosanna Morace alla presentazione dell’ultimo libro della scrittrice, “Il tuo nome è una promessa”, tenuta il 7 giugno 2017 a Roma, organizzata dall’associazione culturale italo-albanese Occhio Blu – Anna Cenerini Bova, in collaborazione con la rivista Confronti e la casa editrice Einaudi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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