Un tempo da noi in Albania, ci si vestiva in maniera uniforme, perché quelli erano i limiti che il mercato e l’industria dell’abbigliamento albanese ponevano, a cui oltre, non ci si poteva andare.
Oggi capita che ci si veste tutti uniforme, per seguire un certo tipo di vestiario, dalle tendenze ed un certo marchio di moda, rischiando niente di meno che la frantumazione della propria personalità.
Di Adela Kolea
“Shfaqje të huaja” – “Estranei comportamenti”
“Il termine ‘moda’ non esiste, avete capito?
Si tratta solo di una determinata tendenza da parte dei commercianti nei paesi capitalisti, dettata dalla loro necessità di vendere sempre più prodotti propri, cercando di abbattere la concorrenza di persone che come loro, fanno di tutto, pur sfruttando il lavoro minorile e tutta la classe operaia – quest’ultima senza diritti e sempre più oppressa – che si materializza definendosi ‘moda’“.
Dopo questa considerazione, che era parte di un approfondimento di una lezione durante l’ora di geografia nelle scuole medie inferiori – fine anni ’80, in Albania – accompagnata anche da un’espressione severa del viso che evidenziava una sua persistente intenzione di essere più persuasiva che mai, la professoressa di geografia lasciò l’aula, con il compito di casa appena assegnatoci per la lezione successiva, dal tema:
“E voi, cosa ne pensate della cosiddetta ‘moda’?”
Che dire!
In età adolescenziale, un’età in cui ragazzi e ragazze si trovano in piena rivoluzione per quanto riguarda il loro sviluppo fisico e psicologico ma, allo stesso tempo, in una fase in cui i sogni ed i desideri, quelli inerenti a tutti gli ambiti della vita sono molto accentuati, la professoressa ci invitava a discutere di “moda”. Purtroppo, quest’argomento per noi significava un po’ come girare il coltello nella piaga.
Ci metteva di fronte a questa prova, più che da compito facente parte del programma didattico, innanzitutto con l’intenzione di fare un sondaggio sulla nostra attitudine nei confronti di questo “capitolo”, sulla nostra spontaneità od ingenuità nel trattare l’argomento. Forse professionale, ma un po’ crudele questo da parte sua, in quanto, se avessimo voluto fare bella figura, se ci tenevamo ad una buona valutazione, se avessimo voluto dimostrare ‘educazione’ e preservare la buona reputazione della famiglia, da noi l’argomento richiedeva di essere per forza considerato in coerenza alle direttive che ci venivano imposte da anni, con un certo spirito di critica e severità, di quella estraneità dal rapporto diretto: la faccenda “moda”, più estranea a noi rimaneva, più “sana” la gioventù albanese cresceva.
Ad esempio: quella specie di tabelloni elettorali che si allestivano probabilmente all’estero nelle strade, in quei paesi dal sistema pluripartitico, da cui noi dovevamo stare alla larga, in quanto ci potevano contaminare con le loro ideologie dannose, da noi essendo che un unico partito usurpava un posto indiscusso, quei tabelloni potevano essere adoperati ad un’altra funzione ed uso, come: per il cosiddetto angolo dei “fletë rrufe”!
Letteralmente, proprio come un fulmine al ciel sereno, qui tra l’altro, la valenza etica indiscussa del comportamento in generale e quella dell’abbigliamento in particolar modo, subentrava con tutta la sua severità ed intransigenza.
Si trattava di bacheche in cui venivano attaccati degli annunci dai “neri” elenchi di nomi, dove venivano criticate pesantemente quelle persone che avevano trasgredito alle norme, dai cosiddetti “ Shfaqje të huaja” – “Estranei comportamenti”, avendo lanciato con la loro condotta, il loro linguaggio, il loro modo di presentarsi, come il taglio dei capelli con look stravaganti, cosi come anche il loro modo di vestirsi dalle valenze ad esempio, seduttive e trasgressive, dei segnali che infrangevano il codice etico e che li posizionavano nella cerchia delle persone da condannare, con una serie di prese di posizione e di misure disciplinari nei loro confronti. Il tutto, accompagnato da foto e dati personali : paradossalmente, per certe cose esisteva la censura e contemporaneamente per altre, la privacy era inesistente. Anzi, questi metodi servivano proprio da seminare paura e panico nella popolazione, i capri espiatori erano utili a dare una lezione di disciplina ed imposizione all’osservazione delle regole a tutti.
Tornando al nostro vestiario
Era certo che quest’ultimo, avrebbe camminato alla pari con la nostra situazione economica e sociale ed avrebbe contraddistinto ed influenzato con le sue caratteristiche, anche il nostro stato d’animo di quei tempi.
Si cercava in tutti i modi di apparire ben vestiti ed in ordine, entro le possibilità e questa devo dire è sempre stata una nostra caratteristica comune ma, dobbiamo ammettere allo stesso tempo anche un’altra realtà: nonostante i nostri colossi dell’industria tessile del tempo, il Kombinat di Tirana, quello di Berat, l’industria di Korça specializzata nei prodotti di maglina elastica di cotone, filanca ecc.., producessero in quantità considerevole, i loro assortimenti lasciavano sempre a desiderare sia per la quantità, che per la loro varietà, qui distinguendo l’accesso dei loro prodotti sul mercato nazionale, da quello da esportazione.
Tant’è vero che era uscito negli schermi un pezzo umoristico, interpretato da una troupe comica se non erro della città di Scutari, in cui si evidenziava tramite la comicità, proprio questo fenomeno: il fatto della mancanza di varietà nei tessuti d’abbigliamento ed il vestire in modo uniforme da parte della gente.
Il pezzo, tramite il gioco di ruolo degli interpreti, presentava la situazione che si creava quando un uomo, per strada, vedendo una donna da dietro le spalle, si rivolge a lei in modo molto confidenziale, convinto che si trattasse di sua moglie, in quanto le donne vestivano pressappoco tutte in modo uguale. Lui scambia questa donna per sua moglie, per via dei loro cappotti identici, dal tessuto a quadri.
Insomma, tragicomico il pezzo e tale anche la realtà stessa. Anche perché dagli anziani sentivamo racconti oppure vedevamo delle vecchie foto di famiglia che traevano loro ai tempi della monarchia in Albania, vestiti molto elegantemente. Abitudini che fin ad un certo punto vennero perse, non per volere o scelta della gente, ma per volere e decisioni altrui..
E ci si rammaricava anche per un altro fatto: l’onnipotenza della moda, la quale attraverso la sua missione di adeguarsi ad ogni tipologia fisica delle persone, nascondendo i difetti fisici di alcuni e risaltandone quelli belli in altri, in Albania era una cosa che si teneva poco in considerazione visto il contesto, il che significava che le ragazze giovani, le giovani spose, dal loro modo di vestire: dai tessuti adoperati, dalle fantasie e dai colori spenti, da certi tagli degli abiti, sembravano molto più grandi di età, nonostante l’età effettiva ed i bei lineamenti che la natura avrebbe potuto loro aver donato.
Indumenti all’altezza o meno, noi non “ci arrendevamo”…
Da un lato, grazie a delle bravissime sarte, o anche alle mani d’oro di mamme, nonne, zie, riuscivamo a farci confezionare dei bei abiti su misura, sempre dopo essere riusciti a procurare la stoffa, e in questo modo come si suol dire, uscivamo un po’ da quei canoni dell’uguaglianza anche nel vestiario comune. L’uguaglianza persisteva invece nella maggior parte degli altri ambiti.
Il famoso “Démodé”
A Tirana, fine anni ’80, ci era giunta voce di un piccolo negozietto di abbigliamento in provincia, che vendeva abiti confezionati in Albania, ma molto più belli di ciò che eravamo abituati a vedere solitamente in circolazione, dalle stoffe migliori, dai tagli “alla moda” , di quella moda che la professoressa ci invitava proprio di non seguire, insomma, diversi dai soliti indumenti in vendita negli altri negozi della capitale.
Un gruppo di amici prendemmo il treno, ai tempi adolescenti, accompagnati da alcuni adulti e raggiungemmo un piccolo villaggio vicino a Durazzo!
Con l’aiuto della gente del posto, tenendo conto anche delle dimensioni molto piccole del paesino, il negozietto lo trovammo subito.
La cosa che mi fece attirare l’attenzione già a distanza, prima di raggiungere il negozio, paradossalmente fu proprio l’insegna sulla sua entrata: il negozio si chiamava: “Démodé”.
Ecco che quell’Albania vintage, quell’Albania del “démodé”, del fuori moda, del vestiario dai gusti “sorpassati”, delle tendenze remote, tornava a galla! Chiaramente questo avveniva in silenzio e senza ammettere che forse un tempo, in Albania quell’estraneo termine “moda” avrebbe potuto esistere invece.
L’attività commerciale che rendeva diverso dagli altri questo negozietto e che ci aveva fatto fare un certo viaggio in treno per raggiungerlo da Tirana, considerando che non eravamo in possesso di automobili private per via del sistema al potere, consisteva nella vendita di capi d’abbigliamento, di cui tessuti, prodotti e poi confezionati in Albania, erano stati esclusivamente destinati all’esportazione. Ma, essendo stati scartati e rifiutati dai compratori, in quanto avrebbero rilevato qualche piccola imprecisione nella cucitura – ai nostri occhi, irrilevanti – diventavano merce da essere classificata come “démodé”, per poi essere venduta nel piccolo villaggio.
La gente del villaggio, di questa roba era completamente disinteressata. Loro vestivano in maniera molto semplice e pratica, in relazione alla vita di provincia e l’abbigliamento, nella classifica delle loro preoccupazioni, occupava forse un posto inferiore da quello della gente di città, anche per il differente tenore e stile di vita.
Non che nella capitale avveniva chissà che cosa nella nostra quotidianità, ma le differenze erano inevitabilmente notevoli e una di queste differenze tra le zone urbane e quelle rurali – moltiplicandosi per la capitale – consisteva anche nel modo di vestirsi. Il lato economico chiaramente, oltre a quello sociale, faceva la differenza.
Dunque, se non ci fosse stato per noi, quella merce nel piccolo villaggio sarebbe forse rimasta invenduta!
Erano dei bei vestiti, soprattutto pantaloni di velluto, dal taglio simile ai jeans, dall’ottima vestibilità. Qualcosa ci diceva, per di più, che si sarebbe trattato proprio di modelli occidentali…
Quell’altro lato “vintage” dell’Albania, che a differenza del primo, è collegato invece con la conservazione degli abiti popolari e tradizionali di ogni regione del nostro paese, da nord a sud, l’ho sempre amato.
Si tratta di una ricchezza collegata alla varietà dei nostri abiti tradizionali, femminili e maschili, facendo rientrare in questa categoria anche i rispettivi accessori specifici che, tramandata nei secoli, diventa per noi motivo di orgoglio e artefice della storia del nostro costume.
“Démodé”?
Con tutto il rispetto, ma tra di noi era un po’ così che consideravamo la professoressa stessa, anziana, alla vigilia della pensione, molto preparata professionalmente, ma dalla mentalità e dal giudizio conservatori, per non dire altro..
Erano semplici considerazioni spontanee le nostre, dettate dall’età in primis, dalla chiusura del paese e dalla voglia di trasgredire all’insistenza dei professori di imporci a mantenere una certa linea, la quali pian piano, alla fine delle scuole medie, guarda caso nel ’85, anno che segnò la morte del dittatore, presero naturalmente un’altra tendenza.
Stranamente anche i sarti iniziarono ad esercitare più liberamente la loro professione, talento e creatività, confezionando per noi degli abiti più vicini a quella tendenza, prima tanto ignorata, la cosiddetta, “moda”.
Insomma, avevo piacere di condividere con voi solo quest’ aspetto del cambiamento che pian piano gli albanesi iniziarono ad abbracciare, ma la cosa più importante era che a cambiare iniziava proprio il pensiero, le scelte, le decisioni e le prospettive di vita di un popolo tanto sofferto.
Il costume varia nel tempo per tutti alla fine. Nel nostro caso, questo collegamento sullo sviluppo costume – società, cioè la valenza sociale del vestiario, assumeva caratteri molto accentuati, proprio perché “il nostro guardaroba” era stato allestito in un armadio profondo, di cui profondità non saprei definire l’unità di misura, ma invece, quella temporale che impiegammo a venirne fuori sì: quella consistette in qualcosa come circa mezzo secolo.
Il modo di presentarsi è un indicatore di identità personale e in quanto a stile ed eleganza, certo non si può generalizzare. In Albania, come dappertutto, sono sempre esistite quelle categorie di persone che di questo, ne hanno fatto da esempio.
D’altro canto, dell’influenza attuale della moda e della conformità nel seguire un certo tipo di vestiario, oppure un certo marchio, forse parleremmo un’altra volta.
Ho il dubbio che pur sempre di ruolo onnipotente della moda si tratti, sebbene manifestato in modo differente.
Un tempo, da noi ci si vestiva in maniera uniforme per i motivi sopracitati. Oggi invece, si rischia di vestirsi tutti uniforme, per altri motivi.
A rischio di cosa? Niente di più e niente di meno che della frantumazione della personalità umana.
Semplice: sopravvive il più determinato e sicuro di se, colui che come stile della propria vita, ne fa la sua originalità ed autenticità.
A questo punto si sentirebbe ancora più forte l’eco della voce di Chanel:
“La moda passa, lo stile resta”.