Di Alessandro Leogrande
In Albania per la presentazione del suo ultimo libro “Naufragio. Morte in Mediterraneo” in albanese (“Mbytja e anijes. Vdekje në Mesdhe”, editore Dudaj) il giornalista e scrittore Alessandro Leogrande racconta Tirana di questo novembre festivo, i suoi incontri tra gli stand della Fiera del Libro, il paese che cambia
“Il fascino austero della Tirana di un tempo”, mi dice Artan Puto, giovane storico albanese, redattore della rivista “Përpjekja”, “non c’è più”. Una crescita edilizia senza capo né coda sembra aver fagocitato la città. Dalla terrazza del grattacielo della Coin, uno di quei luoghi in cui – sotto un sole ancora tiepido – la recente “alta società” albanese ama sedersi ai tavolini e ordinare un cappuccino, la burrascosa trasformazione della capitale si scorge nitidamente. Ci vorrebbe un grande film come “L’età dell’innocenza” di Scorsese, mi dice ancora Puto, per descrivere i riti della singolare upper class che ci circonda, i suoi codici, i suoi vestiti, i suoi status symbol, le sue case, le sue vacanze… Tra essa e le immagini dello sconquasso dei primi anni novanta corre di mezzo una galassia.
“Chi sono i nuovi ricchi?”, gli chiedo. Come si è creata la nuova ricchezza? “Con il flusso di denaro proveniente dalle organizzazioni internazionali, innanzitutto. E poi con l’edilizia. Vent’anni fa Tirana aveva 250 mila abitanti, adesso ne ha quasi un milione.” I signori di questa radicale trasformazione urbanistica sono i veri padroni dell’Albania contemporanea. Ma ora, dopo aver prosperato per un quindicennio, il loro piccolo impero comincia a scricchiolare sotto la crisi del mattone. Molti soccombono, i più lesti e rapaci riescono reinvestire altrove. Ad esempio nelle grandi concentrazioni editoriali (note per il fatto di pagare una miseria il lavoro dei giornalisti) oppure nel business tutto albanese delle scuole e delle università private. Tirana ne conta almeno trenta (di università private), con rette che si aggirano intorno ai 200-300 euro mensili (più o meno lo stipendio di un dipendente statale). Molte sono dispensatrici di un pezzo di carta (e noi italiani, con la triste vicenda di Renzo Bossi e dell’entourage leghista, ne sappiamo qualcosa). Alcune, le più serie, formano la nuova classe media. I figli dell’élite, invece, vanno a studiare direttamente a Londra o negli Stati Uniti.
Sono a Tirana per la Fiera dell’editoria. “Il naufragio”, il mio libro sull’affondamento della Kater i Rades al largo delle coste pugliesi nel 1997, è stato appena tradotto in albanese. Benché sia stato accolto positivamente dalla stampa “liberal”, ho l’impressione che una lunga opera di rimozione su tutte le vicende degli anni novanta (e in particolare proprio sul cataclisma del 1997) si sia abbattuta sulla nuova Albania. Ne ho conferma chiacchierando con lo scrittore Ardian Vehbiu, autore di racconti sul periodo totalitario e di un saggio intitolato “Contro il purismo” sul dilagare del nazionalismo identitario. “I drammi del passato interessano solo una ristretta minoranza di intellettuali”. Tutti gli altri vogliono dimenticare certe vicende perché sinonimo di povertà, miseria, caos. Non solo i nuovi ricchi: anche la ristrettissima classe media o il popolo delle periferie che preme alle porte del centro e stenta ad arrivare alla fine del mese. Vogliono rimuovere anche gli studenti che si affollano numerosi tra gli stand della Fiera: guardano avanti, sognano altro.
Questa rimozione ha due conseguenze. La prima è che la presenza dell’Italia (ancora evidente nei nomi delle banche, dei ristoranti o sugli scaffali dei supermercati) sembra evaporare. Non siamo più la terra promessa, ed è davvero molto difficile trovare un albanese al di sotto dei 25 anni che comprenda l’italiano: una cosa impensabile fino a 10 anni fa. Ora i ragazzi parlano un inglese perfetto, molto più dei loro coetanei al di là dell’Adriatico. (Ovviamente, la nostra incapacità di intessere un reale dialogo transnazionale, e di comprendere le trasformazioni radicali del paese vicino, è il principale alleato di questa evaporazione.)
La seconda è che, con la rimozione di una memoria critica degli anni novanta, si è cancellata anche la possibilità di un’indagine obiettiva sulle responsabilità politiche. Oggi l’Albania sembra uno dei paesi più liberi del mondo, eppure sono al potere le stesse persone che, provenendo dalle file del vecchio partito comunista (le terze, le quarte file), erano già al potere nella prima metà degli anni novanta. Mi dice Vehbiu: “La struttura del linguaggio pubblico, la costruzione sintattica delle frasi pronunciate dai ministri o dai leader politici, è la stessa di trenta o quarant’anni fa. Cambiano i soggetti delle frasi (invece che del comunismo si parla magari dell’Europa), ma il modo di parlare è il medesimo.”
Quasi a celare questo continuismo, e i problemi che affliggono i nove decimi della società, la capitale è avvolta da un numero spropositato di bandiere nazionali. Si celebra il centenario dell’indipendenza albanese del 1912, ma non ci sono solo i drappi ufficiali appesi ai palazzi del potere lungo il Boulevard. Da ogni condominio ne spuntano 6-7, quasi fossimo alla vigilia di una finale dei Mondiali.
La Fiera del libro è ospitata nel Palazzo dei Congressi, in un angolo della città il cui impianto urbanistico è ancora quello dell’occupazione fascista. Pare di essere all’interno di una piccola riproduzione dell’Eur. Ampi spazi, imponenti colonnati razionalisti. Tra i libri venduti sono molti gli autori italiani. Sia i classici del Novecento (Calvino, Buzzati, Silone, Levi…) sia quelli più recenti (Eco, Tabucchi, Ammaniti, Saviano, Carmine Abate, Michela Murgia…) Ma in generale salta subito agli occhi come gli albanesi siano un popolo di grandi traduttori. Non c’è autore europeo o americano più o meno noto che non sia stato tradotto. Eppure – mi fa notare un giornalista – la qualità delle traduzioni lascia spesso a desiderare: “Molti hanno rovinato anche i premi Nobel…”
Il mio editore, Arlinda Dudaj (punto di riferimento per le case italiane, dalla Mondadori alla Feltrinelli) mi confida che la crisi dell’editoria inizia a sentirsi anche qui, nelle stesse forme e con gli stessi numeri impietosi dell’Italia. Molti accusano perdite del 20-30%. Probabilmente saranno in pochi a sopravvivere nei prossimi anni, in un paese la cui crisi economica sembra dipendere innanzitutto dalla crisi economica dei due vicini più grandi, l’Italia e la Grecia.
Tra i libri che acquisto, quello che più colpisce la mia attenzione è la traduzione albanese di “Opinioni di un clown” di Heinrich Böll. L’ha curata Ardian Klosi, scrittore cosmopolita, giornalista, raffinato editore, ecologista, una delle voci più interessanti e acute dell’Albania post-totalitaria. Nella primavera scorsa Klosi si è suicidato, e il suo suicidio – per il profondo shock che ha provocato in un’ampia cerchia di amici, intellettuali, compagni di strada, militanti politici – mi ha ricordato quello di Alex Langer. Sono rimasto colpito dalla sua traduzione di Böll, pubblicata tre anni fa, perché una pagina su cinque del libro è su sfondo grigio. Quando ho chiesto alla nipote il perché, mi ha risposto che la “pagine grigie” (una cinquantina) sono quelle censurate dal regime nella prima edizione del 1985. Parlano di sesso, religione, amore… (“temi allora proibiti”). Klosi ha voluto pubblicare in questa forma editoriale la nuova edizione. E non poteva esserci fotografia più impietosa della follia della dittatura: uno dei libri più feroci contro il pachidermico processo di denazificazione della Germania censurato per ottuso moralismo.
Di sera, passeggio da solo per le strade del Bllok, un tempo cittadella proibita in cui abitavano circondati dai soldati il dittatore, i membri del Politburo e le loro famiglie. Oggi è rimasto in piedi solo qualche edificio, in particolare la residenza di Enver Hoxha, ormai disabitata. Il Bllok è il cuore della trasformazione edilizia della capitale. Ci vive la nuova upper class. E di notte i suoi locali, le sue discoteche, i suoi lounge bar (presenti in una quantità eccessiva, manco fossimo a Trastevere) si riempiono di gente che arriva in Suv o in Mercedes. Eccolo il cuore del potere socio-economico, e soprattutto estetico, della nuova Albania: la presa del Palazzo d’Inverno è avvenuta a colpi di drink e musica chiassosa.
Alessandro Leogrande, Corriere del Mezzogiorno