Abbiamo bisogno di costruire percorsi di partecipazione democratica dei cittadini stranieri alla vita sociale e politica. Le primarie sono per questo un momento decisivo, basterebbe guardare le facce contente dei tantissimi bengalesi, albanesi, romeni, e donne e uomini di altre nazionalità, che votando alle primarie si sono sentiti meno immigrati e un po’ più romani
Di Marco Pacciotti*
Le primarie per il futuro sindaco di Roma sono state una boccata d’ossigeno per la città e per la nostra democrazia. Il fatto che oltre centomila cittadini abbiano scelto di partecipare non era facile né scontato, specie se guardiamo al clima generale del Paese.
Potevano essere di più? Certamente sì, e in occasioni diverse così è stato, ma potevano anche essere di meno o magari potevamo cavarcela come altri, con poche centinaia di partecipanti on line.
Allora la prima cosa da fare è non sottovalutare questa bella prova di civismo e ringraziare, uno per uno, tutti gli elettori, i volontari e i candidati che hanno reso possibile un risultato simile. Fra i tanti che si sono messi in fila ai gazebo, alcuni erano stranieri. Un valore aggiunto a mio modo di vedere, un problema forse per altri. Come a volte accade quando si commenta il voto dei cittadini stranieri alle primarie, anche stavolta si è riaffacciata l’idea che diversi tra questi dovessero per forza essere stati circuiti a mezzo di denaro e quindi che la loro sia stata una partecipazione tale da inquinare la trasparenza del voto.
Un rischio che non si può escludere, almeno in via di principio. In fondo il voto di scambio in Italia è una pratica antica e assai antecedente al coinvolgimento dei migranti. Quel che contrasto con forza è la tendenza a generalizzare, con denunce fondate sul sentito dire e col bagaglio di stereotipi che quel modo di ragionare si porta appresso.
Mi permetto di dire che l’equazione secondo cui un migrante al seggio – qualunque seggio – sia con ogni probabilità prezzolato da qualcuno e comunque incapace di giudicare sul merito delle cose, rischia purtroppo di prendere piede e persino di diventare l’ennesimo strumento di polemica autolesionistica fra schieramenti, dentro e fuori il PD.
Insomma sono preoccupato perché il chiacchiericcio fondato sui “si dice” può, quello sì, sfigurare l’esito del voto e lasciare un’ombra sulla battaglia culturale e politica più importante che il nostro partito sta sostenendo da anni. Battaglia che si può riassumere nell’idea di un corpo di diritti da garantire a ogni cittadino migrante. La questione non riguarda solo la cittadinanza per i bambini nati o cresciuti in Italia, traguardo su cui oltre il 70% degli italiani si dice d’accordo e sulla quale Bersani si espone da tempo. La questione investe un intero spettro di diritti sociali e politici tuttora negati o rimossi. Fra i secondi c’è anche il diritto di voto alle elezioni amministrative per tutti gli stranieri regolarmente residenti in un comune da almeno cinque anni. Cosa che da anni avviene in gran parte del nostro continente in base a una Direttiva europea recepita dal Parlamento italiano nel 1994 e mai attuata pienamente.
Su questa proposte, nei mesi passati, il Forum Immigrazione del PD si è impegnato a raccogliere moltissime firme e lo stesso segretario del partito fu tra i primi a sottoscrivere la campagna “l’Italia sono anche io”. Per noi è una sfida culturale, prima che politica, utile a tutto il Paese e non solo a chi vi risiede da pochi anni. Estendere i diritti non significa regalare un privilegio, ma corresponsabilizzare alla vita di una comunità anche i nuovi cittadini. Renderli partecipi significa farli uscire dallo status di immigrato per entrare in quello più inclusivo di cittadino. In breve, vuol dire costruire una maggiore coesione sociale.
In questo il nostro partito è impegnato, ma è una battaglia dura, perché la crisi economica e le campagne xenofobe di questi anni si sono rafforzate a vicenda, distorcendo la realtà e facendo breccia anche nei nostri insediamenti sociali. Il punto è che una società impaurita risulta meno disponibile ad accogliere, vede l’altro come un competitore da respingere, a cui negare anche i diritti fondamentali come quelli all’assistenza sanitaria o alla scuola.
Per queste ragioni ritengo l’ennesima polemica alimentata sul voto degli immigrati alle primarie dannosa. Si rischia di far del male alle nostre buone ragioni, e questo non possiamo permetterlo. Sia chiaro che se ci sono episodi provati d’inquinamento del voto, quelli non solo vanno denunciati ma sanzionati, la denuncia però deve essere circostanziata e puntuale per non cadere nella facile strumentalizzazione della destra più becera. L’alternativa, temo, è ciò che alcuni quotidiani riportano con enfasi. La messa sub iudice delle primarie e la riproposizione di stereotipi anacronistici sui migranti.
Ritengo invece che abbiamo bisogno di costruire percorsi di partecipazione democratica dei cittadini stranieri alla vita sociale e politica e che questo percorso sia ancora pieno di ostacoli. Ostacoli che è compito della buona politica rimuovere accogliendo l’invito dell’articolo 3 della nostra Costituzione. Le primarie sono per questo un momento decisivo, basterebbe guardare le facce contente dei tantissimi bengalesi, albanesi, romeni, e donne e uomini di altre nazionalità, che votando alle primarie si sono sentiti meno immigrati e un po’ più romani. Su questo sentimento deve investire una grande forza come il PD e più in generale l’Italia perché abbiamo tutti bisogno di più cittadini e non di “braccia” invisibili.
* L’autore è coordinatore del Forum Immigrazione del Pd