Imperativo per l’Albania è uscire dalla lista grigia dei paesi balcanici in perenne lotta con l’instabilità politica e gravi ritardi economici.
Proclamando l’intenzione di mirare all’innalzamento della dignità dello stato albanese all’ammissione nel club europeo i socialisti e i loro alleati meritano di essere sostenuti, consapevoli loro e noi come società civile che solo il successo potrà rendere giustizia a quest’obiettivo.
Di Gjergji KAJANA
Il governo di Edi Rama si deve ancora insediare il mese prossimo a Tirana e presentare il suo programma davanti al Parlamento, esplicando in quella sede anche le sue priorità di politica estera. Saranno sicuramente quelle del programma elettorale socialista sulla “Rinascita” dell’Albania: continuità con l’euro-atlantismo, stretti legami strategici con i vicini Italia, Grecia e Turchia, avvicinamento con l’Unione Europea tramite l’ottenimento dello status di paese candidato e l’inizio dei negoziati di adesione entro il primo anno del nuovo governo, mantenimento dell’alleanza con Washington.
È, pressapoco, lo stesso programma del governo Berisha, che, malgrado eroso nella sua credibilità internazionale dai gravi scandali di corruzione e la violenza esercitata contro le libertà democratiche albanesi il 21 Gennaio 2011, ottenne l’adesione dell’Albania nella NATO nel 2009 e sfiorò l’ottenimento dello status di paese candidato all’UE l’anno scorso. Però, in sostanza, si può già prevedere con un avanzato grado di fiducia che la politica estera del gabinetto Rama sarà molto diversa da quella berishiana perché perseguirà con più vigore l’agenda euro-atlantica albanese e non tenterà mai di flirtare con l’idea della “Grande Albania”, come pericolosamente tentò di fare negli ultimi mesi l’autocrate che si prepara a consegnare il potere.
Il percorso governativo berishiano in politica estera è stato ambivalente in tutti e due i suoi mandati di governo (1992-1997, 2005-2013). Le amministrazioni albanesi da lui controllate hanno sempre promesso di avere USA e UE come stella polare del percorso diplomatico di Tirana, ma il berishismo ha tenuto l’Albania in un sottosviluppo istituzional-economico che ha reso complicato l’avvicinamento agli standard democratici riconosciuti dal mondo occidentale. Una miope visione degli interessi strategici albanesi di lungo periodo ha regnato nell’Albania di Berisha, leader balcanico che durante le guerre jugoslave violava l’embargo ONU contrabbandando in petrolio con gli assassini jugoslavi e forgiava nel paese un sistema autoritario di stampo orientale. Unico (e non poco notevole) successo l’adesione nella NATO, raggiunta però al termine di un percorso accelerato nel 1999 dai socialisti di Nano, che allora assecondarono le voglie occidentali di non estremizzare il nazionalismo albanese durante la guerra del Kosovo mentre Berisha era molto meno moderato e consigliava ai rappresentanti kosovari di non firmare gli accordi di Rambouillet. A cavallo tra il 2012 e il 2013 Berisha alzò il vessillo della “Grande Albania”, un dito nell’occhio per gli occidentali e le diplomazie dei nostri vicini, che reagirono stizziti e ironici. Urlando slogan irredentistici, promettendo la cittadinanza ai connazionali nei paesi vicini e impegnandosi in un duello a suon di comunicati con Belgrado sui diritti degli albanesi viventi nella Valle del Preševo, l’autocrate sicuramente non si preoccupava dello status degli albanesi fuori dall’Albania ma della possibile fuoriuscita di voti a destra a favore dei nuovi nazionalisti di “Alleanza Rossonera”. Alla prova delle urne gli albanesi hanno rigettato l’estremizzazione del sentimento nazionale, sfiduciando sia il partito berishiano sia i rossoneri.
Edi Rama e i socialisti vorrebbero essere portatori di un nuovo modo più efficiente e trasparente di fare politica pubblica in Albania. Berisha è un populista autoritario, personificazione di un politico doppiogiochista che invoca un futuro in Europa e un paese baciato dal progresso, ma ha dominato l’Albania per tredici anni lasciandola nella sua personale discesa all’opposizione come il più corrotto paese dei Balcani.
La sua nemesi socialista ha dimostrato da sindaco di Tirana abilità amministrative e un rispetto della legalità che ora vorrebbe estendere, votato dalla maggioranza degli albanesi, a tutto il paese. A capo della diplomazia metterà Ditmir Bushati, il tecnico più esperto dei socialisti in politica estera, già a testa della ONG EMA e della Commissione esteri del Parlamento. Rama, Bushati e la trentenne indicata come nuovo ministro per l’Integrazione Gjosha sono sicuramente coscienti del fatto che nella comunità internazionale, con la quale l’Albania deve interagire pena l’isolamento, il progetto mai defunto dell’Albania “naturale” (sinonimo di quella “etnica”) minaccia la stabilità dei confini tra i paesi balcanici, prospettiva non voluta dall’Occidente. A gennaio il leader socialista definì la retorica irredentista berishiana come “turbofolk nazionalista” e disperatamente appesa al “fantasma del nazionalismo primitivo balcanico”.
Rama guarda a Bruxelles, Washington e Roma, non a Pristina o Preševo. Il nuovo premier mira a entrare nella storia come acceleratore della “Albania europea” membro dell’Unione di Bruxelles e non della “Grande Albania”. Il programma della “Rinascita” prevede passi verso l’unione doganale con il Kosovo, l’impegno di Tirana a favore di nuovi riconoscimenti per questo giovane stato e la firma di un trattato di stretta collaborazione tra le due capitali albanesi. Fermandosi qui però: se unione nazionale albanese ci deve essere un giorno quella deve aspettare un terremoto geopolitico internazionale in funzione del cambiamento degli attuali confini balcanici e non l’impegno dei socialisti al governo a Tirana. La storia insegna che la nascita di tutti e due i stati albanesi (Albania nel 1912-1913, Kosovo nel 2008) è dipesa tanto dalle eroiche lotte di liberazione nazionale intraprese dalla società albanese quanto da interessi geopolitici in funzione anti serba di Roma, Vienna e Berlino nelle guerre balcaniche di 100 anni fa e di Washington nella ultima, giusta, guerra contro Milosevic (1999). I socialisti, attori non secondari durante il conflitto del 1998-1999 in quanto governanti dell’Albania e fornitori di sostegno logistico a NATO e Uçk, la conoscono a memoria questa lezione. Durante il loro mandato governativo del 1997-2005 essi hanno già dimostrato di non vedere l’impegno euro-atlantico albanese solo come slogan ma come opportunità di sviluppo per il sistema paese, che ha bisogno come del pane dei legami con l’Occidente per lasciare alle spalle l’arretratezza orientale che lo attanaglia.
Imperativo per l’Albania è uscire dalla lista grigia dei paesi balcanici in perenne lotta con l’instabilità politica e gravi ritardi economici. Durante la seconda amministrazione berishiana si è materializzato, sulla via del cammino verso l’UE, il sorpasso di Serbia e Montenegro ai danni di Tirana, cosa impensabile solo dieci anni fa, quando Belgrado leccava le ferite delle guerre di Milosevic e Podgorica non era ancora capitale di un nuovo stato (che sarebbe nato nel 2006).
Una delle eredità del berishismo è anche un diminuito senso della bussola strategica degli interessi dell’Albania, fieramente euro-atlantica a parole dal 1991, ma immersa da allora in una transizione al buio che fa apparire questa retorica una foglia di fico per coprire il finora fallimento di un inclusivo progetto democratico. E’ un’eredità mortificante e cambiarla è una sfida molto impegnativa perché mai nella sua storia di 100 anni di stato nazionale l’Albania non si è mai seduta da pari sul tavolo delle democrazie europee. Rama sposterà sostanzialmente la rotta più decisamente a Occidente. Proclamando l’intenzione di mirare all’innalzamento della dignità dello stato albanese all’ammissione nel club europeo i socialisti e i loro alleati meritano di essere sostenuti da tutta l’Albania, consapevoli loro e noi come società civile che solo il successo potrà rendere giustizia a quest’obiettivo.