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A chi giovano le imprecisioni del prof. Sartori?

Riconoscere la cittadinanza a quei ragazzi di origine straniera che qui nascono (non immigrati quindi) o crescono parlando la stessa lingua dei nostri figli e condividendone le passioni, non significa “assimilarli” se questo è il timore, ma ampliare la sfera dei loro diritti, dare stabilità al loro futuro e a quello delle loro famiglie. Significherebbe essere lungimiranti. Intervenendo su una delle leve essenziali per la costruzione della convivenza fra persone, portatrici di culture che sono e restano diverse per alcuni aspetti, senza però essere necessariamente antitetiche o confliggenti.
Di Marco Pacciotti*

Sono rimasto sconcertato oggi nel leggere l’articolo di Sartori pubblicato dal Corriere della Sera. L’ho letto con la dovuta attenzione per tre buone ragioni: il dovere di informarmi, il titolo stimolante “…ma integrare non è assimilare” e infine perché lo stesso autore mesi fa, da questo stesso giornale attaccò con parole sessiste e argomentazioni sbagliate la allora neo ministro Kyenge e altre sue colleghe di Governo.

Lo fece in modo preconcetto vista la loro fresca nomina. In particolare ebbe parole dure contro la Kyenge insistendo sulla sua professione medica come a voler insinuare il dubbio sulle effettive competenze e volendo così avvalorare la tesi che fosse una raccomandata. Nell’articolo odierno ammette con onestà di essersi sbagliato su questo punto.

Dopo questa doverosa annotazione però persevera nella sua “demolizione” ricorrendo ad argomentazioni che nulla hanno a che vedere col merito delle cose annunciate nel titolo. Ovvero che integrazione e assimilazione siano due cose diverse. Considerazione condivisibile sulla quale il PD e la stessa Kyenge da anni portano avanti battaglie. Tanto da sostenere apertamente ad esempio l’idea che la scuola non possa prescindere da un approccio interculturale. Posizione che discende anche da una presa d’atto dell’esistente.

I recenti dati resi pubblici dal MIUR evidenziano come gli alunni di origine straniera frequentanti le nostre scuole siano oltre 760.000. Mentre complessivamente le ragazze e i ragazzi nati o cresciuti in Italia superano ormai il milione. Questo avrebbe potuto rappresentare un interessante spunto per ragionare su cosa significhi oggi il meticciato e lo ius sanguinis. Soprattutto se questo abbia ancora senso come requisito unico per la cittadinanza. Specie in una società sempre più globalizzata, in cui la libera circolazione delle persone rappresenta un segno di progresso ed è considerata sempre più un fattore di crescita economica e sociale. Penso che questo possa essere uno dei temi centrali di confronto alle imminenti elezioni europee. Ma di queste cose non vi è cenno nell’articolo, si preferisce il sarcasmo, accennando ad ipotesi di candidature europee di stampo terzomondista per la Kyenge e arrivando a definirla dogmatica, in riferimento alle sue posizioni sullo Ius soli. Un’affermazione infondata per chi conosce la proposta del PD diventata poi la base di discussione nel passato governo. Proposta tutt’altro che dogmatica, si parla infatti di Ius Soli temperato. Per l’ottenimento della cittadinanza del minore infatti è richiesto come requisito necessario che almeno uno dei genitori sia residente da almeno 5 anni in Italia. Ben altro quindi dal modello anglosassone a cui si riferisce l’autore che persevera nell’approssimazione in modo sospetto. Un fatto grave per un accademico del suo livello. Testualmente infatti afferma che “la cittadinanza italiana è fondata sullo ius sanguinis” (vero), aggiungendo poi che “siamo cittadini italiani se siamo nati in Italia da cittadini italiani” (non vero). Una inesattezza dimostrata dalle centinaia di migliaia di cittadini italiani nati o cresciuti all’estero che concorrono con il loro voto ad eleggere in Parlamento diversi rappresentanti. Gran parte di questi elettori sono italiani per discendenza, ma non perché nati in Italia come asserito autorevolmente nel pezzo. Molti di questi nostri connazionali in realtà non hanno mai visitato l’Italia e ancor meno ne parlano la lingua. Per dirla tutta a volte per essere cittadini italiani basta poter dimostrare una discendenza da immigrati partiti dopo 1861.

Riconoscere quindi la cittadinanza a quei ragazzi di origine straniera che qui nascono (non immigrati quindi) o crescono parlando la stessa lingua dei nostri figli e condividendone le passioni, non significa “assimilarli” se questo è il timore, ma ampliare la sfera dei loro diritti, dare stabilità al loro futuro e a quello delle loro famiglie. Significherebbe essere lungimiranti. Intervenendo su una delle leve essenziali per la costruzione della convivenza fra persone, portatrici di culture che sono e restano diverse per alcuni aspetti, senza però essere necessariamente antitetiche o confliggenti. Anche qui ricorrere all’Islam come esempio di religione e cultura incompatibili con l’accettazione delle regole democratiche, risente di un occidentalismo assai discutibile, questo sì dogmatico, che vede tutti i cittadini di religione islamica necessariamente osservanti e con un ulteriore salto logico, questi sarebbero di conseguenza indottrinati contro il modello di sviluppo occidentale e la democrazia rappresentativa. In assoluto non è così, anche se è possibile che in alcuni casi possa accadere. Il 1.600.000 di mussulmani italiani e stranieri residenti in Italia sono la dimostrazione più evidente di quanto questa idea sia sbagliata.

Tornando al tema dello ius soli, è evidente come sia fuorviante volerlo considerare indirettamente come uno strumento di assimilazione, così come lo è negare il meticciato. La mescolanza di cui parla il cardinale Scola citato da Sartori, non solo è inevitabile ma – mi permetto di osservare – è il fattore che più di tutti ha permesso lo sviluppo del genere umano, come confermato dalla genetica. La storia dell’Italia ha nel meticciato una delle componenti fondamentali e peculiari. L’Impero romano prima, la Chiesa cattolica per il loro carattere unificante, hanno reso la penisola italiana crocevia di culture, popoli e religioni. A questo si aggiunga la posizione geografica dell’Italia nel cuore del Mediterraneo e le numerose invasioni subite nei secoli. Questi elementi storici e geografici hanno determinato una mescolanza unica nel contesto europeo e forse mondiale. Una evoluzione che ha arricchito la nostra lingua, le nostre conoscenze matematiche e filosofiche, i gusti culinari e musicali per citare solo alcuni ambiti in cui il meticciato è diventato parte integrante della nostra cultura “autoctona”. Senza dimenticare le evidenti differenze somatiche che da Nord a Sud rendono gli italiani un popolo meticcio de facto.

Non è quindi banale porsi la domanda “cui prodest?” che un quotidiano tanto influente pubblichi un articolo cosi pieno di imprecisioni, su un tema tanto delicato. Credo che le imminenti elezioni europee abbiano a che fare con un articolo come questo, che definirei di posizionamento politico. Il tempo ci aiuterà a scoprire la localizzazione esatta.

* L’autore è coordinatore del Forum Immigrazione del Pd

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