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Referendum costituzionale e immigrazione, il pericolo del voto disinvolto
Di avv. Gentian Alimadhi

In merito al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre, sento il dovere di fare alcune riflessioni perché stimolato dalle varie reazioni al riguardo, non tanto da parte dei naturali avversari politici di Renzi, quanto degli estranei alle dinamiche partitiche operanti nella politica italiana e che, apparentemente, non hanno interessi diretti di partito in gioco. Mi riferisco a tutti coloro che non hanno tempo e voglia di scendere nel merito della riforma, con ciò ignorando l’importanza della Costituzione e della sua eventuale modifica. All’interno di questa ultima categoria ho dovuto purtroppo constatare che si trovano liberi professionisti, tra i quali anche degli avvocati che operano nel campo del diritto.

Non voglio correre il rischio di diventare noioso scendendo nel tecnico – anche se ciò è inevitabile, visto e considerato che la mia riflessione/sfogo/appello è rivolta principalmente a tutti coloro (spero non in maggioranza) ai quali non interessa il merito della riforma costituzionale ma si limitano ad interpretare o a fare da portavoce all’indirizzo partitico o, nella migliore delle ipotesi, alle interpretazioni suggestive altrui, senza pensare alle conseguenze che detto comportamento potrebbe arrecare alle persone nel futuro. Questo atteggiamento disinvolto è a mio parere irresponsabile, ed esprimo questa mia affermazione compatibilmente con il rispetto della libertà di coscienza altrui che resta un principio inamovibile e consacrato della Costituzione stessa. Tuttavia, non posso rimanere inerme di fronte alla incoerenza (per non dire illogicità) che trovo nelle motivazioni del NO di talune categorie di persone, tra le quali con stupore ho riscontrato anche degli immigrati, recenti o meno (io rientro nella categoria dei ‘meno’) che tentano di convincere gli altri prima di essere convinti loro stessi dei perché del NO.

Ma aggiungo, per par condicio, di aver conosciuto persone che votano SI perché nel ‘piuttosto che niente’ scelgono il “piuttosto”, quindi scelgono il cambiamento anche se non hanno capito niente di quel linguaggio giuridico usato dai costituzionalisti invitati nelle trasmissioni televisive.

Da immigrato di vecchia data mi stupisce in questa campagna referendaria il fenomeno che – ahimé, per volere preciso dei NO-isti – questo referendum costituzionale si sta confondendo con la campagna che solitamente si svolge in occasione delle elezioni politiche. Infatti, non mi stupiscono tanto le posizioni di forza degli antagonisti storici del partito democratico, come Berlusconi, Grillo e Salvini, che impongono di votare NO al proprio elettorato (convinto o meno della giustezza della riforma), quanto la posizione degli altri “parenti” della famiglia PD (Bersani, D’Alema and friends), che non accettano di andare in pensione (non sto dicendo “rottamarsi”) e lasciare l’”azienda” di famiglia nelle mani dei fratellini più giovani, che hanno tanta voglia di correre e di affermarsi nella storia della politica del Paese. Dunque, ci troviamo paradossalmente di fronte ad un conflitto generazionale tra vecchi e giovani, un conflitto animato, da una parte, dall’intento di consacrare i propri privilegi personali e di gruppo, e dall’altra troviamo dei giovani vogliosi di cambiamento che, incuranti e “irrispettosi” delle ripicche e delle manie di protagonismo dei primi, vanno avanti a tutto gas anche a rischio di farsi male, consapevoli che con la loro grinta ed energia possono rialzarsi e riproporsi di nuovo nello scenario.

V’è infine un altro inquietante (per non dire spaventoso) atteggiamento da parte di una categoria di elettorato, che considero la meno coerente e la più pericolosa per la democrazia in Italia in questo momento: sono coloro che non si pronunciano né per il Si, né per il NO, nascondendosi dietro il proprio opportunismo spicciolo. Questi, senza voler rischiare, attendono all’uscio il risultato per poi uscire allo scoperto e “confidare” a tutti di aver votato il vincitore. In tal modo costoro credono di poter mantenere il loro status quo o forse di acquisirne uno nuovo con l’appoggio dello schieramento vincente, qualunque esso sia.

Tornando alla posizione degli schierati, propendere per il NO con la stessa ingenuità e disinvoltura del tifo che si fa normalmente, a favore o contrario, per le squadre di calcio o per sentito dire o per pura antipatia (anche questa per sentito dire) nei confronti dell’attuale premier mi pare inaccettabile. Altrimenti non riesco a darmi una risposta a frasi che sento sovente del tipo “non mi interessa cosa c’è scritto nella riforma, basta che Renzi se ne vada a ca…”. Questa frase non l’ho sentita tanto dall’operaio di fabbrica che non ha tempo la sera di guardare le trasmissioni televisive sostenitrici del “disinvolto” NO, quanto da altre persone che potrebbero intendere meglio certi termini strettamente giuridici. Per passare poi alle frasi di coloro che si sforzano a dare un giudizio nel merito (ahimè sempre per sentito dire) del tipo “eh ma come fanno questi nuovi eletti del Senato a coniugare i due incarichi cioè di consigliere/Sindaco ed il Senatore”, oppure ancora “non si mangia con la Costituzione” oppure un’altra osservazione, forse più plausibile della prima “la riforma non va bene perché doveva cancellare del tutto il Senato quindi è meglio se non si fa”, oppure “si rischia la deriva autoritaria” e così via.

Premetto che ciò che dovrebbe interessare, a mio parere, non è il promotore del referendum ma piuttosto il merito della riforma. Questo non è il referendum su Renzi e nemmeno la riforma di Renzi. L’avrei sostenuta anche qualora l’avessero promossa gli altri: Berlusconi, Grillo e, addirittura, Salvini (non mi è facile aggiungere quest’ultimo nome). Io l’avrei sostenuta ugualmente e avrei votato SI. Come sono giunto a questa convinzione? Semplice, da “ex straniero” quindi non legato da sentimentalismi e legami di sorta con i partiti e/o coi ‘poteri forti’, mi sono estraniato dalla posizioni di parte ed ho voluto prima studiarmi una breve storia della Costituzione dalla sua nascita ad oggi, per poi capire come è nata questa riforma e chi l’ha voluta, se è necessaria, e cosa cambia per me come cittadino.

È proprio questo che vorrei facessero i sostenitori del NO, ma anche quelli del SI, siano loro operai, liberi professionisti, “proletari”, immigrati (o ex tali). Non intendo offendere l’intelligenza di nessuno e nemmeno voglio cadere nella banale retorica di chi vorrebbe orientare le scelte altrui ma mi permetto di invitare ad un maggiore sforzo di responsabile analisi per andare oltre alle astuzie del teatrino della politica. Abbiamo la grande opportunità di non far fallire anche questa occasione di cambiamento, dopo i tanti tentativi falliti del passato (ben 9 volte dal 1983 al 2013).

Insomma, ci tengo personalmente al cambiamento perché da nuovo italiano ci tengo rimanere nel Paese dove ho scelto di costruire il mio futuro e quello della mia famiglia. E non si può far finta di non vedere che tanti italiani e non ogni giorno abbandonano questo bel Paese per raggiungere altre mete che offrono la speranza di un futuro migliore. E non posso dar loro torto, atteso che è opinione diffusa che l’apparato di questo Stato sia ormai obsoleto, complesso e non meritocratico e che sia giunta l’ora di cambiare l’apparato della macchina istituzionale. E per ottenere questo bisogna pur partire da qualche parte. Un preverbio arabo cita “l’acqua non si pulisce se non scorre”. Chi vuole che l’Italia resti ferma non vuole nemmeno il bene di se stesso ma fa il gioco dei pochi che vogliono uno Stato debole, facile e suscettibile di interferenze e condizionamenti esterni.

La prima cosa da fare se si vuole il cambiamento non può che essere l’aggiornamento di questa Costituzione che, come sostenuto da qualcuno, “è come un bel mobile antico”. È la necessaria premessa, la condizione per fare tutto il resto. A chi drammatizza parlando di ‘deriva autoritaria’ rispondo che, senza governi stabili, senza politiche coerenti di medio e lungo termine, è impossibile conseguire i risultati che i cittadini si attendono da tempo. Tutti la vogliamo e siamo quasi nostalgici della Costituzione del ’48, ma se essa va bene nella prima parte (articoli fino a 54), non va evidentemente bene nella seconda parte (dal 55 in poi). Se i principi fondamentali non vengono toccati perché ci trovano tutti d’accordo, il resto, ed in particolare il bicameralismo paritario, era stato concepito e contestualizzato al clima socioeconomico che l’Italia attraversava dopo la fine della guerra. Insomma, due camere che fanno lo stesso lavoro non possiamo permettercelo sia in termini di lentezza di adozione delle leggi, sia in termini di costi delle tante poltrone di lusso. Per fare un esempio concreto sul danno che crea questo sistema farraginoso ricordo (in particolar modo ai miei amici aspiranti ‘nuovi italiani’), la riforma della legge sulla cittadinanza la quale, approvata un anno fa alla Camera, giace esanime in Senato. Quindi da cittadino di uno Stato moderno ho necessità di avere istituzioni di governo e rappresentative più funzionali e al passo con i tempi.

Sarebbe stato meglio cancellare del tutto il Senato? Sicuramente, e sarei stato maggiormente favorevole. Se non si è riusciti, non sono sicuro se per colpa di questo governo o di altre forze ma, intanto, per la prima volta a 70 anni dalla Costituzione e a 35 da quando si è cominciato a parlarne, oltre alla soppressione del Senato tradizionale, avremo 220 parlamentari in meno, ed il nuovo Senato “delle Autonomie”, avrà competenze ridotte all’approvazione di poche leggi tra cui quelle costituzionali. Nel 2013, quando non si è riusciti nemmeno a formare un governo, tutti i partiti con i rispettivi leaders, che oggi sono accaniti antagonisti di questa riforma, volevano le riforme istituzionali, con particolare riguardo al superamento del bicameralismo perfetto. Per dovere di cronaca, ricordo che nel 2013, quattro partiti sono andati a pregare Giorgio Napolitano di accettare la rielezione a Capo dello Stato per “spingere” all’approvazione delle riforme istituzionali, riforme che adesso paradossalmente non sostengono più.

Alla critica secondo cui la riforma è un attentato alla democrazia perché non assicura le necessarie “garanzie”, risponderei invece che la riforma assicura più democrazia e non meno, considerato che viviamo un deficit democratico derivante dal fatto che il Senato stesso oggi pesa quanto la Camera ma non è eletto a suffragio universale (non votano circa 4 milioni di cittadini fra il 18 e 25 anni).

I sostenitori del NO sanno benissimo che nel sistema giuridico multilivello europeo e internazionale nel quale siamo inseriti, chiunque governi deve fare i conti con l’Unione Europea. Per non parlare della società italiana composta da gruppi di pressione portatori di interessi quali ad esempio i sindacati, il terzo settore, gli industriali, la chiesa, e così via, che hanno cristallizzato il loro ruolo di equilibrio. Nell’analizzare la contestazione secondo la quale sarebbe servito un Senato di garanzia direttamente eletto è sufficiente ricordare che nel Progetto di Costituzione predisposto dalla Commissione dei 75 (con Meuccio Ruini a capo), un terzo del Senato doveva essere eletto dai consiglieri regionali, e questa esigenza di superare il ‘bicameralismo paritario’ è stata espressa più volte e periodicamente dopo il ‘48 dai padri costituenti e personaggi di spicco della vita parlamentare tra i quali Dossetti nel ’51, Nilde Iotti nel 79, (Spadolini nel ‘82 propone per la prima volta il superamento del bicameralismo paritario).

Come autorevolmente spiegato nel libro “La transizione è (quasi) finita – come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” del Prof. Stefano Ceccanti, si evidenzia bene come il Senato attuale fu un compromesso deciso dai padri costituenti per scongiurare la profonda diffidenza reciproca tra le differenti forze politiche, e come il cuore del progetto dell’attuale riforma sta anzitutto nella rimozione dell’irrazionalità di due Camere che danno entrambe la fiducia al Governo e la legittimazione diretta del Governo da parte degli elettori attraverso l’elezione dei parlamentari. Il secondo obiettivo si attua con la regionalizzazione del Senato quale vera chiave di volta del completamento della riforma del Titolo Quinto. Infine, è da evidenziare che non vi sono tanti esempi al mondo che adottano il bicameralismo alla italiana.

In definitiva, ritengo che se vince il NO avremo la conferma definitiva che l’Italia non vuole cambiare in avanti ma vuole rimanere ferma. Per riavere un’altra chance dovremo attendere la nascita di altri giovani politici coraggiosi nel dire e fare le cose e con visione lungimirante. Fino a quel giorno ci sarà da galleggiare nel laghetto stagnante della politica e burocrazia statale italiana, ove si continuerà a servire la solita minestra riscaldata. Io, francamente, non ci sto. Io non accetto di rinunciare a guardare avanti, e non rinuncio a sostenere chi vuole il cambiamento perché solo così si può dare la speranza di un futuro diverso ai nostri figli, un futuro in cui la politica sappia apprezzare l’intelligenza e l’energia dei giovani, e dove i “vecchi” non paralizzino il tentativo di cambiamento. Sono 40 anni che si invoca da parte di tutti la riforma costituzionale, e adesso che siamo arrivati finalmente a decidere, vi sono i “diversamente politici” che dissentono. Ritengo che questa riforma se attuata, può segnare una svolta soprattutto culturale, al di là dell’effettivo cambiamento strutturale. L’esito del referendum del 4 dicembre ci indicherà quanto noi elettori di un sistema democratico saremo concretamente fautori del nostro destino.

 

 

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