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Continua il viaggio di Anija, nave sulle onde della nostra Storia

Il documentario di Roland Sejko dedicato all’esodo degli albanesi negli anni novanta sta girando con successo tra sale e festival. Immagini di repertorio e racconti dei protagonisti, per dare voci e volti alla folla e raccontare l’epopea che ha cambiato per sempre anche l’Italia

Roma, 7 marzo 2013 – C’è un pezzo della Storia degli italiani che passa per il canale d’Otranto, attraversato vent’anni fa da migliaia di albanesi che cercavano la salvezza e l’hanno trovata in questo Paese. Diventandone parte, diventando italiani.

La racconta Anija/La Nave, documentario realizzato da Roland Sejko per l’Istituto Luce Cinecittà, cucendo il prezioso materiale di repertorio recuperato tra una sponda e l’altra dell’Adriatico con le interviste a dieci protagonisti di quell’esodo. Rintracciati nella miriade informe per darle volti e voci, per passare dall’orda all’essere umano. Quasi per rispondere a una di loro, che ricorda: “Non vedevo l’ora di uscire da quella folla, da quella nave”.

Anche il regista era su una di quelle navi, la Legend, che approdò a Brindisi con un carico inverosimile di cinquemila tra uomini, donne e bambini, ma non narra mai in prima persona: “Avevo paura di essere coinvolto oltre quello che volevo. La mia storia è la somma di tutte quelle degli altri. Se questi dieci testimoni danno un volto a quella folla, quel volto è anche il mio” spiega.

E i testimoni rivivono, tra lacrime e sorrisi, le loro storie. Ecco la mamma che fugge con sua figlia da un Paese e da un matrimonio falliti. L’impiegato che vede tutti andare verso il porto, e decide di andare anche lui, con in tasca la paga della giornata perché “se qualcosa andava male, potevo prendere un treno”, una banconota che conserva ancora oggi. Il pilota militare che diserta per non sparare sulla folla e vola con il suo mig in Italia: “Quattro minuti, atterraggio compreso. Ma non finivano mai.”

Parlano le nuove generazioni. Il ragazzino che venne qui da solo, ma tornò indietro dopo sei mesi perché non ce la faceva più senza la sua famiglia, senza i suoi amici. La figlia di quello stesso impiegato che con un’impeccabile accento pugliese dice: “Non so se io avrei il coraggio di partire come ha fatto lui”. O il bambino di allora poi laureato in economia a Firenze, che ha aperto a Tirana un call center che dà lavoro a oltre mille giovani connazionali e scommette: “Oggi non credo andrebbero in Italia”.

Il racconto intimo si contrappunta alla narrazione storica di quell’esodo che cambiò per sempre l’Albania e l’Italia. La ricostruzione di Sejko è rigorosa, mai pedante, ne individua le tappe principali, la genesi e le trasformazioni. Mostra il Paese sotto Enver Hoxha, l’indottrinamento totalitario, i processi pubblici agli oppositori, dileggiati dalla pubblica accusa in un teatro strapieno anche per aver preferito la musica jazz o la musica italiana alla musica popolare albanese.

E poi la morte del leader, il crollo del regime, la “roccaforte inespugnabile” dove non esistevano passaporti che non riesce più a rimanere chiusa al mondo. I primi coraggiosi che sfondano i cancelli delle ambasciate occidentali per chiedere asilo politico, il porto di Durazzo finalmente aperto il 6 marzo del 1991, l’assalto alle navi  fino ad allora utilizzate solo per trasportare materie prime. Sapevano di carbone e di zucchero, come i carichi della Vlora e della Legend, i viaggi che il Tg 3 dell’epoca chiamava “della disperazione”.

Invece questa era una terra di speranza, di vita nuova. “Siamo liberi, grazie Italia, c’è la mia famiglia qui, aspetta un bambino libero, la mia bambina è libera!“ grida alle telecamere uno dei profughi. E i brindisini scendevano in strada e cucinavano per quella marea di persone, che indossavano vestiti per noi , anche allora, fuori moda. Persone distribuite e accolte nelle varie regioni italiane, con un permesso di lavoro.

Poi l’Italia volta le spalle, non le considera profughi in fuga da un regime, ma immigrati irregolari da rimandare a casa con un ponte aereo, dopo averli chiusi per giorni nello stadio di Bari. E qualche anno più tardi, quando la bolla delle finanziarie pirata getta sul lastrico migliaia di famiglie albanesi, schiera la marina militare per fermare le loro navi, fino ad affondare la Katër i Radës nel venerdì santo del 1997, uccidendo ottantuno persone.

Anija è un documentario, ma colpisce anche la pancia e il cuore. Perché racconta l’epopea dei coraggiosi che tra sofferenze, incertezze e paure, lasciarono tutto e lanciarono la loro vita oltre il mare. E si chiude con la commossa determinazione di una di loro: “Se tornassi indietro io quel viaggio lo rifarei, perché in quel viaggio ho capito chi sono. Lo rifarei nello stesso modo”.

Rivelazione dell’ultimo Torino Film Festival, Anija sta girando tra i cinema italiani. A febbraio è stata al Mexico di Milano, il 5 marzo ha riempito l’Adriano di Roma e altre sedici sale laziali. Il 6 marzo ha fatto il pieno alla Cineteca di Bologna, il 7, l’8 e il 16 marzo tornerà nella Capitale, al Kino, il 22 marzo approderà al Bari International Film Festival. “La nave sta andando” commenta Sejko. E lasciamola andare.

Elvio Pasca

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