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Il paese di fronte, l’Albania, visto da “Lo Straniero”

Il mensile italiano di arte, cultura, scienza e società, “Lo Straniero”, dedica il numero di maggio all’Albania.

La sezione ‘Paese che vai’ del mensile cerca di dare al lettore italiano degli elementi per conoscere meglio l’Albania, presentata con un ampio dossier curato e introdotto da Alessandro Leogrande, vicedirettore del mensile e con i contributi di Fatos Lubonja, ex detenuto politico, che racconta le metamorfosi del Bllok di Tirana; di Ardian Vehbiu, che con il suo “Dentro l’Europa” analizza il nazionalismo rinascente e il rapporto dell’Albania e degli albanesi con l’Europa; Ardian Klosi, scomparso lo scorso anno, che parla dell’ambiente in uno dei suoi ultimi interventi, “Il paese di plastica”; Rando Devole che tratta l’emigrazione degli albanesi in Italia, dalle spinte e i motivi della fuga all’integrazione di oggi, e di Roland Sejko, fresco di David di Donatello per il suo film Anija, che tratta proprio degli sbarchi degli anni ’90 in Puglia, e che nel dossier racconta del cinema albanese prima e dopo il regime.

Il numero del Lo Straniero di maggio contenente il dossier sull’Albania si trova nelle edicole. Mentre mercoledì 5 giugno 2013, alle ore 18.00, lo stesso verrà presentato all’Ambasciata dell’Albania.

Di seguito, l’introduzione del dossier:

L’Albania, il paese di fronte
di Alessandro Leogrande

Negli anni novanta l’Albania ha rappresentato per l’Italia il grande “altro”. L’esodo del 1991, culminate nell’approdo del mercantile Vlora con a bordo ventimila persone nel porto di Bari, ha dato il via a un fitto riallacciarsi dei rapporti tra le due sponde. Quell’esodo ha avuto, per l’Europa meridionale, un’importanza pari alla caduta del Muro di Berlino. Non solo ha segnato un nuovo incontro tra la riva orientale e la riva occidentale dell’Adriatico; ha fatto irrompere le migrazioni di massa e i viaggi dei migranti (i boat people, in particolare) nel nostro immaginario contemporaneo, un immaginario allo stesso tempo politico, sociale e psicologico. Le poche miglia di mare che separano il paese balcanico dalla Puglia, di fatto invalicabili per almeno cinquant’anni, sono diventate in quel frangente uno dei tratti di mare più trafficati al mondo.

Eppure l’Albania che si apriva al mondo non era solo il paese a lungo ingabbiato da uno dei più claustrofobici totalitarismi comunisti (quello edificato intorno al dittatore Enver Hoxha). Era stata in passato parte integrante dell’Impero voluto da Mussolini, testa di ponte della nostra espansione colonial nei Balcani e nel Mediterraneo, una delle tante terre (quella più vicina) in cui, ad avere occhi per guardare, la retorica degli “italiani brava gente” è andata in frantumi.

Nel rapporto con l’Albania, passato remoto, passato prossimo e presente si intrecciano continuamente. È questo a rendere complesso il rapporto tra le due sponde meridionali dell’Adriatico. Ma cosa ne è oggi degli albanesi e del loro paese? Cosa accade sull’altra sponda nel XXI secolo, nel momento in cui – benché l’Albania aspiri all’integrazione europea – da noi si parla sempre di meno del “paese di fronte”, come se gli albanesi fossero diventati sempre più marginali nel nostro immaginario collettivo?

Innanzitutto va ricordato che in Italia, negli ultimi vent’anni, si è creata una comunità di mezzo milione di albanesi-italiani, la seconda comunità di stranieri dopo i romeni. Non si tratta solo degli uomini e delle donne che varcarono l’Adriatico e il Canale d’Otranto nei primi anni novanta. Ci sono anche i loro figli, e i loro nipoti. Una seconda e una terza generazione di albanesi residenti, e tranquillamente integrati, si è insediata nel nostro paese. Dal Lazio in su, in particolare, ci sono ampie comunità pienamente radicate, anche in provincia. L’aspetto più interessante di questa nuova realtà multiculturale è costituita dai ventenni, pienamente bilingui e capaci di sperimentare una doppia cittadinanza, una doppia appartenenza, tra le due sponde dell’Adriatico. Sull’altra sponda, invece, c’è un paese tumultuosamente mutato, un paese in cui – come per altri paesi dell’Est – la transizione post-totalitaria non è progredita ordinatamente con la stessa velocità in tutti i settori della società. Anzi, all’espansione della società ha fatto da contraltare l’incancrenirsi dei processi politici. Quello che era – ancora alla metà degli anni novanta – il paese più contadino d’Europa si è riversato in massa all’estero o nelle città più grandi. Valona, Durazzo e soprattutto Tirana, la capitale, sono cambiate enormemente in pochi anni. L’esplosione urbanistica e la cementificazione del paese sono il principale vettore di trasformazione dell’Albania contemporanea. Ed è questo anche il principale vettore intorno al quale si sono create le nuove ricchezze ed è andata ampliandosi la forbice sociale tra i nuovi ricchi e il resto della popolazione.

Passeggiare per Tirana vuol dire attraversare, spesso nello spazio di poche centinaia di metri, vari piani socio-temporali: il passato coloniale italiano, il passato del razionalismo comunista, le costruzioni degli occidentali, le case dei nuovi ricchi, i quartieri poveri con i palazzi diroccati e le strade non asfaltate subito dietro l’angolo, un intreccio inestricabile di levante e di voglia di occidente, che sovente si manifesta nelle insegne dei locali, dei ristoranti, dei negozi.

In questa Albania pienamente entrata nella società dei consumi (nonostante fortissimi squilibri), la presenza dell’Italia è meno forte che negli anni novanta. Solo una minoranza dei ragazzi che vivono sull’altra sponda dell’Adriatico parla l’italiano, una cosa impensabile fino a quindici anni fa, quando l’italiano era una sorta di seconda lingua veicolata dalle nostre tv e posseduta da tutti. Il paese guarda altrove, l’Italia non è più l’unica incarnazione possibile dell’Occidente. Ce ne sono altre più promettenti, nel nord Europa o sull’altra sponda dell’Atlantico. Tutto ciò non è solo uno specchio della nostra crisi economica. È anche lo specchio rivelatore della nostra incapacità di stare in mezzo al Mediterraneo, in dialogo paritario con quei paesi delle altre sponde che a lungo hanno guardato a noi. In questo, il nostro deficit culturale e politico è pari, se non maggiore, di quello economico.

Per oltrepassare gli errori del passato (le nostre malefatte coloniali e neocoloniali), per rimediare alla lunga incomprensione su una delle dittature staliniste più asfissianti, per superare l’indifferenza provinciale del presente, occorre costruire ponti e incrociare gli sguardi critici tra le due sponde. Stabilire un dialogo con “l’altra parte”, in particolare con le voci fuori dal coro, in grado di porre sotto nuova luce l’odierno rapporto tra oriente e occidente, e di spazzolare contropelo il presente del proprio paese. È quanto abbiamo provato a fare in questa sezione della rivista, con una serie di saggi e interventi di intellettuali albanesi.

Fatos Lubonja, ex dissidente politico che ha passato diciassette anni in un gulag, esperienza cui ha dedicato un Diario pubblicato in Italia dalla calabrese Marco editore, è una della voci critiche più interessanti dell’Albania contemporanea. Il suo lungo saggio-racconto sulla trasformazione del centro di Tirana è tratto da Last & Lost. Atlas d’une Europe fantôme, un’antologia di scrittori dell’Europa di confine, a cura di Katharina Raabe e Monika Sznajderman, pubblicata in Francia da Les édition Noir sur Blanc. Ardian Klosi è stato invece un importante critico, traduttore, organizzatore culturale, militante ambientalista dell’Albania post-totalitaria. Si è tolto la vita lo scorso anno, provocando un forte shock in un’ampia comunità di amici, compagni, intellettuali, militanti. Il suo intervento è tratto da una raccolta di suoi scritti pubblicata dalla casa editrice Dudaj, Te kundërcjapi, utile a capire molte delle trasformazioni di questi anni. Lo scrittore Ardian Vehbiu è uno dei più attenti osservatori del nuovo nazionalismo albanese, che riprende, a sua volta, molti dei tratti estetici e retorici del nazional-comunismo elaborato sotto il regime. Rando Devole studia da tempo L’emigrazione albanese in Italia, come recita il titolo di un suo libro uscito per Agrilavoro nel 2006. Roland Sejko è autore di due film che raccontano molte delle cose fin qui dette: Il paese di fronte e, in particolare, Anija, sui viaggi dei migranti verso l’Italia. Il suo saggio sul cinema albanese prima e dopo la caduta del regime ci dice quanto sia complessa – per vie culturali, non solo strettamente politiche – la transizione post-totalitaria. Ringraziamo gli editori Dudaj e Noir sur Blanc per averci permesso di ripubblicare i testi di Klosi e Lubonja, e l’Istituto di culture mediterranee della Provincia di Lecce per aver contribuito alla realizzazione del dossier.

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