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La libertà della scrittura nella “Piccola saga carceraria” di Besnik Mustafaj

Di Blerina Suta [*]

I diversi tempi di scrittura delle tre storie che compongono l’opera “Saga E vogël”/ “La piccola Saga” (1995) di Mustafaj attraversano l’ultima fase dal regime comunista in Albania.

L’elemento paratestuale del titolo: “piccola saga” rovescia il modello diretto ed altisonante della letteratura soc-realista, cioè la “grande saga”, preannunciando che il rapporto tra la scrittura e la libertà (tema centrale anche delle altre opere della stessa fase, “Vera pa kthim” e “Gjinkallat e vapës”)  non può essere dettato dal modello collettivo dell’eroe, ereditato dal canto epico.

L’oggetto duplice e speculare delle storie private del romanzo – che sono storie di grande resistenza e speranza – capovolge appunto il modello dominante, culturale e di scrittura, di epoca comunista, calibrato sull’eroe tipico, rappresentante della collettività.

Il protagonista della storia centrale, Bardhyl Huta, chiede la partecipazione del lettore al compimento della poetica dell’opera nel momento stesso in cui mette a nudo il meccanismo narrativo, quando cioè si dichiara narratore di sé personaggio e della propria storia. Ma la storia di Bardhyl è al tempo stesso storia della sua famiglia, il cui destino è fatalmente segnato dalla prigionia politica.

La prima parte, infatti, è dedicata alla storia del padre di Bardhyl Huta, che non aveva mai conosciuto il proprio di padre, prigioniero politico, se non attraverso i canti epici che lo descrivevano come un eroe coraggioso. Il primo incontro tra i due avviene in prigione e sconvolge profondamente il figlio, che di fronte alla figura invecchiata e provata del padre che gli si fa incontro, sente sgretolarsi il modello genitoriale. La sua vita da adulto, durante il comunismo e come padre di Bardhyl, è descritta come una vita vissuta nell’ombra della paura della prigionia politica.

Nella seconda parte, il protagonista è lo stesso Bardhyl, anch’egli prigioniero politico, che per essere sceso a compromessi con le regole della detenzione riceve in premio il tanto desiderato appuntamento notturno con la moglie Linda. La storia si svolge nella stanza degli appuntamenti familiari della prigione: Bardhyl, in preda all’ossessione di essere sorvegliato da una guardia che con apparecchi d’intercettazione registra l’incontro da una stanza accanto, per strumentalizzare i dialoghi della loro notte d’amore, trascorre tutto il tempo senza parlare e rinunciando all’amore con la propria compagna.

La terza parte, infine, è la storia dell’autoisolamento, sempre in prigione, del custode Hyqmet, nonno di Linda, narrata secondo gli appunti di un giornalista di cronaca che ne voleva trarre un romanzo. Hyqmet uccide il giornalista e insieme a lui anche il figlio di un macellaio della città, che aveva abusato della figlia. Ma anche Hyqmet, a sua volta, viene ucciso, da un ufficiale dello Stato, ragion per cui la storia, che in città è la storia della pazzia di Hyqmet, giunge all’orecchio del narratore attraverso varianti popolari, raccontate e diffuse nella bottega del barbiere.

La storia dei prigionieri politici rappresenta solo la forma più estrema di privazione e di violenza a cui sono sottoposti l’individuo e la società intera sotto la dittatura. Il lungo lasso di tempo che abbraccia le tre storie del romanzo – dallo Stato del Re, al periodo della guerra, sino al comunismo – consente di indagare i tratti caratterizzanti della morfologia della dittatura, illuminata da una duplice prospettiva, in cui il “dentro” ed il “fuori”, che caratterizzano la prigione, si rivelano, per così dire, invertiti.

La figura-chiave che regge la tensione artistica dell’opera è quella del muro che, nella descrizione del “dentro” e del “fuori” che separa, rovescia il modello del rapporto scrittura-pubblico nella contrapposizione “muro che difende” vs. “muro che rinchiude”, invitando il lettore ad un processo alienante di trasformazione.

Quest’idea viene proposta già nell’incipit dell’opera, mediante un’interpretazione ‘rovesciata’ del mito dell’Odissea, come la storia di una vittoria dei Troiani che narrano ai posteri il modo in cui “bruciarono il cavallo di legno dei greci/ senza permettergli di entrare in città”.

Le due storie umane di Bardhyl e Hyqmet, complementari e speculari nel rapporto con la prigionia politica, vissute nei ruoli simbolicamente opposti di vittima e carnefice, sono in effetti due piccole storie di grande eroismo e di amore per la libertà, nelle condizioni della sua più intima ed estrema privazione. 

Mario Bova, Mauro Geraci, Besnik Mustafaj, Blerina Suta e Caterina Benelli alla presentazione a Roma del romanzo Piccola saga carceraria La storia di Bardhyl, in particolare, con il suo assurdo processo di estraniazione, per costruire la propria ombra, altra da sé, come strumento di difesa dall’“orecchio” meccanico ed alienante dello Stato, mette in mostra un percorso di conoscenza di estrema lucidità sul funzionamento del codice della dittatura. La figura del “chiodo” nel suo cervello, cioè la sua ossessione, diventa emblema della superiorità dell’uomo nei confronti di quella total-ombra, che nascosta dall’altra parte del muro custodisce furbescamente l’intimità infangandola, sporcandola. La sua storia segna una vittoria della speranza contro lo strumento di violenza che lo Stato instilla nel suo perenne gioco di ripiegamento.

Anche il muro allegorico del guardiano Hyqmet è di emblematica “chiusura” verso il mondo esterno, quel mondo che non si fa scrupoli ad usare la violenza contro il proprio simile. In tanti anni di servizio, le storie dei carcerati politici sono pietre pesanti che hanno fortificato il castello della sua dignità, che non accetta la sopraffazione. Il lettore ripercorre la silenziosa trasformazione del suo sguardo in un’ombra verde che rivendica, nel suo personale gesto di giustizia per l’intimità offesa della figlia, l’idea della libertà e dell’amore, l’unico elemento autentico ed inalienabile che l’uomo costudisce dentro di sé.

Speculare a queste due storie di speranza è la storia di Omer, padre di Bardhyl, emblema di tutto ciò che di terribile si trova al fuori delle mura della prigione politica. La persona di Omer rimane sempre fuori dalla vita, in entrambe le fasi del suo svolgimento: nell’infanzia, “avvolto mese dopo mese come un ombra” dalla gloria del padre, prigioniero e vittima del vuoto modello epico di vita, per cui l’esistenza è solo una parentesi in attesa di “fare la morte come una nascita”/ “me e bȃ dekën si me lé”; e in età adulta, ancora prigioniero e vittima, questa volta del sentimento di paura che lo Stato aveva instillato nella sua fragilità e nel suo vuoto interiore, trasformando il suo ruolo paterno nella vita di Bardhyl in un’ombra-parentesi.

Il codice espressivo della lingua ufficiale è incarnazione del meccanismo di violenza ed oppressione che lo Stato esercita sull’individuo. E nella società albanese la dittatura si è appropriata, nella “morfologia della sua lingua ufficiale”, del codice epico della “gloria del passato”.  “L’operazione pericolosa sulla lingua nazionale” è stata fatta basandosi sul tradizionale modello culturale “nér vs. turp” / “onore vs. vergogna”, che si è tradotto in una prassi del potere della collettività sulla vita dell’individuo.

Il processo carnevalesco della nascita delle ‘varianti’ della storia di Hyqmet in città, che oscillano tra sembianze di eroismo sterile e follia, mette a nudo il meccanismo mostruoso dell’esaltazione della vergogna nel processo di accerchiamento del giudizio collettivo sul “diverso”, che tenta di resistere al potere omologante dell’ideologia dello Stato. 

Nata da e per conto della collettività, la barberia, bottega di “pettegolezzi”, con il suo meccanismo di funzionamento in stile epico, con le ‘varianti’ che si susseguono, si mette a servizio dell’invariante ufficiale, quella prodotta dalla ‘bottega’ dell’arte soc-realista, rappresentata dalla figura del giornalista di cronaca Andi Bodeci.

Tipico scrittore al servizio dello Stato, il suo sforzo di sottomettere le varianti narrate ad un falso ideale collettivo di eroe mira a istituzionalizzare l’individuo monodimensionale, caricatura del modello maschile degli eroi kreshnik, cantati nelle grandi saghe albanesi. La sua descrizione di Hyqmet, come una specie di Gjergj Elez Ali dei tempi moderni, equipaggiato di corazza metallica pronta al combattimento, lascia fuori dalla narrazione, cioè isola dentro, l’interiorità del personaggio. Il profilo di Hyqmet, nella bozza di romanzo di Bodeci, diventa emblema della scrittura del partito, totalmente calibrata sulla simbologia esteriore, tipica delle scritture sovrastrutturali e delle ideologie di controllo.

I romanzo trasmette due intime storie d’amore: di un marito per la moglie e di un padre per la figlia. Con l’uccisione di Bodeci da parte di Hyqmet, l’autore uccide il modello maschile dell’eroe socialista, che la letteratura ufficiale imponeva sulla falsariga di un modello culturale ereditato dal passato.

Mustafaj, misurandosi con il codice culturale ed espressivo del passato, accorda la propria preferenza al modello femminile delle saghe: preferisce, infatti, le lacrime della sorella di Gjergj Elez, fonte della sua forza disumana; preferisce, ancora, le parole della madre di Kostantino, fonte della forza che supera la morte; preferisce, infine, la giovane sposa murata viva come sacrificio ai fratelli Rosa e Fa, che costruiscono il castello.

Non a caso, negli spazi narrativi onirici, che racchiudono il sentimento dello scrittore, il narratore isola frammenti di sogno di una “citta dell’uomo”, in cui l’intimità e l’amore siano protetti, come nel sogno del piccolo Omer, che nel viaggio reale verso la città che non aveva mai visto, immagina lo spazio urbano con edifici tinteggiati di latte. Lo stesso latte, secondo la ballata antica, bagna ancora oggi i muri del castello di Rosafa, emblema dell’amore materno e della salvezza, nel gesto di una giovane donna che prima di essere murata viva chiede che le sia lasciata libera una mano per cullare il figlio e un seno per allattarlo.

La salvezza umana nelle stazioni della sua rovina è donna, maggior custode della vita quando l’uomo, casualmente, ci inciampa e diventa un sassolino da calciare. Questo ragionamento sulla storia segue la scena fantastica del parto di una pietra da parte di Linda, in chiusura del romanzo, quale oggettivazione dell’idea polisensa dell’opera, all’dea del muro della libertà innalzato da ogni piccola difesa dell’amore e dell’intimità dell’uomo.


[*] Questo è l’intervento di Blerina Suta, docente di Lingua, Letteratura e Filologia Albanese all’Università L’Orientale di Napoli, alla presentazione del romanzo organizzata dall’Associazione culturale Occhio Blu Anna Cenerini Bova in collaborazione con il Centro Studi Confronti e Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). Mercoledì 21 novembre 2018, Roma.

Lexo edhe: 
BURGU SI METAFORË – Recension për romanin nga Rando Devole
LA PICCOLA, GRANDE SAGA CARCERARIA DI BESNIK MUSTAFAJ – Intervento di Mauro Geraci alla presentazione del libro

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