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La violenza non è potere

“Non farti né schiavo né tiranno di nessuno”
Marco Aurelio

Secondo i dati Istat del 2013, in Italia una donna su 3 (circa 7 milioni, tra i 16 ed i 70 anni) ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della sua vita. Nonostante questo, solo il 7% delle donne denuncia gli abusi, solo il 25% riceve cure mediche e solo il 5% viene riconosciuta vittima di violenza.

Le diverse forme di violenza si combinano tra loro per autore e tipologia: un quinto delle vittime subisce infatti violenza sia dentro che fuori il rapporto di coppia; il 41% ha subito violenza sia fisica che sessuale dal partner; un milione e mezzo ha subito dal partner ripetute violenze.

Murale contro la violenza sulle donne
I tipi di violenza

Quando si parla di violenza, si pensa immediatamente a quella fisica; invece la violenza può avere tante forme più sottili, ma non per questo meno dannose. Tutti quei comportamenti che minano l’autostima, la dignità personale e la voglia di vivere sono atti violenti, anche se non arrecano un danno fisico evidente. Adottare atteggiamenti di denigrazione, controllo e sottomissione, che mirano a svilire il modo d’essere dell’altro e considerarlo un oggetto, sono comportamenti che hanno come scopo principale il mantenimento del potere.

La violenza, oltre che fisica, può quindi essere psicologica: il partner violento spinge la compagna ad isolarsi dagli amici e dai familiari, la critica continuamente, la sminuisce davanti agli altri e davanti a se stessa, la pedina e la controlla. Questa tipologia di violenza si colloca nel registro della possessività con l’intenzione di dominare e controllare l’altro con gesti di umiliazione, critiche avvilenti, gelosie patologiche. Utilizzando come arma, per riuscire nel suo intento, il ricatto psicologico (tipo: “se mi amassi, faresti…”), la minaccia (tipo: “se mi lasci, mi ammazzo”) o la svalorizzazione della donna (tipo: “senza di me non sei niente”). 

La violenza può inoltre essere sessuale: l’uomo violento impone alla partner di avere rapporti intimi contro il suo desiderio, o la costringe ad attività sessuali che sono per lei disgustose. Fa leva sulla sua paura di perderlo, minacciandola che, se non lo accontenterà, si cercherà una donna più disponibile.

La violenza può essere economica: il maltrattante ostacola tutti i tentativi di lavorare o di trovare lavoro della partner, si fa mantenere da lei, oppure mantiene la donna in una posizione economica totalmente dipendente, togliendole la sua autonomia.

Gli effetti della violenza sono quindi sia fisici (ferite, lesioni e contusioni a diversi stadi di guarigione) che psicologici (disistima di sé, depressione, abuso di alcolici e di sostanze psicoattive che portano dipendenza, idee e fantasie suicidarie).

Chi agisce violenza?

Non esiste un profilo particolare di uomo violento da cui rifuggire. Solo il 10% delle persone violente è affetto da psicopatologie, nella maggioranza dei casi sono cause psicologiche normali come frustrazione oppure stress cronico a generare violenza. Non esistono fattori protettivi o favorenti come l’età, il gruppo (etnico, religioso, socioeconomico) o la professione.

Il profilo di chi agisce violenza è universale, caratterizzato da labilità emotiva e difficoltà nel controllo degli impulsi. Chiunque non sappia contenere le frustrazioni può infliggere violenza: le frustrazioni represse si cronicizzano fino a raggiungere un culmine in cui si supera la soglia e si libera la violenza.

Per esempio, è la discrepanza tra le aspettative della coppia e la realtà della vita vissuta a generare aggressività (la moglie è diversa dalla madre, non le viene riconosciuto il valore sociale acquisito). Nelle famiglie spesso convivono persone (genitori, figli e nonni) che hanno personalità e aspettative differenti. Si creano così conflitti relazionali e contrasti generazionali che richiedono competenze psicologiche generalmente assenti: saper discutere e confrontarsi (p.e. focalizzando il problema e non fossilizzandosi su conflitti passati), saper gestire i conflitti, saper negoziare.

La violenza come strumento di controllo e subordinazione

Secondo alcuni studi svolti negli Stati Uniti, si viene a considerare la violenza come un fenomeno strettamente legato alla cancellazione (ancorché simbolica) del genere femminile; una manifestazione diretta quindi, della volontà di dominio e di subordinazione di un sesso, quello maschile, nei confronti dell’altro, percepito come diverso, e per questo pericoloso. In tale quadro, la violenza non è frutto di una patologia o di un’anomalia, ma legata, al contrario, alla quotidianità e alla normalità dei rapporti fra uomini e donne nella società. I dati raccolti in queste ricerche sottolineano infatti, come sia le donne stuprate e picchiate, sia gli uomini che usano loro violenza, appartengono a tutte le età, condizioni economiche,  classi sociali, provenienze etniche e culturali.

La vittimizzazione della donna

La donna sottoposta a violenza subisce un processo di vittimizzazione che inizia con un primo episodio critico di violenza emotiva, seguito dalla volontà di riconciliazione. La vittima e il suo l’aggressore assumono comportamenti affettuosi reciproci, vivono una sorta di secondo “innamoramento” che sembra risolvere il conflitto in apparenza, quando in realtà non è così. La tensione tenderà infatti a ricostruirsi nuovamente, fino ad arrivare ad un secondo episodio di violenza e abuso; e, successivamente, ancora un altro e un altro ancora. Nel corso del tempo gli episodi di violenza divengono sempre più brutali, si manifestano ad intervalli di tempo sempre più riavvicinati tra loro e, lentamente, la volontà di riconciliazione sparisce.

Si entra così in quel circolo della violenza che viene paragonato ad una spirale, caratterizzata da 7 stadi che minano profondamente l’autostima della donna fino a distruggerla: si inizia con intimidazioni, poi l’isolamento, seguito da svalorizzazione e segregazione, passando per aggressione fisica e/o sessuale con false riappacificazioni, fino ad arrivare al “ricatto” dei figli.

La violenza intrafamiliare

La violenza fisica e sessuale in un rapporto di coppia è sempre accompagnata da quella psicologica, ed introduce un elemento specifico — la violenza, appunto — ad una dinamica relazionale propria. Generalmente gli episodi di violenza si verificano ciclicamente, senza motivo apparente, ad intervalli sempre più brevi e si susseguono in un crescendo di gravità che può mettere in serio pericolo la vita stessa della donna.

Questo fenomeno viene definito “ciclo della violenza” e al suo interno si possono distinguere tre fasi: la costruzione della tensione, l’esplosione della violenza, seguita poi dal pentimento/perdono con un ritorno momentaneo della coppia all’affettività.

Per la donna il rapporto di coppia diventa quindi un susseguirsi di shock che aumentano la svalorizzazione di sé, la sfiducia che la situazione possa cambiare e, soprattutto, la sensazione che sia impossibile sottrarsi al potere dell’altro. Non a caso, il comportamento dell’uomo violento è stato paragonato a quello usato dai torturatori per annientare le loro vittime, caratterizzato da identici effetti destabilizzanti. Si tratta qui di vere e proprie strategie finalizzate a esercitare potere sull’altra persona, utilizzando modalità di comportamento atte a controllare, umiliare, denigrare e infliggere paura. La violenza agìta dall’uomo all’interno della famiglia tende in tal modo a stabilire e a mantenere un clima di controllo sulla donna (e sui figli).

Come uscire dal circolo della violenza?

La donna che subisce violenza è una donna normale. La violenza, in qualsiasi modo venga esercitata, lascia sempre una traccia profonda nella personalità di chi la patisce: spesso la donna che subisce violenza non ha la consapevolezza di ciò. E’ necessario quindi dimostrarle che quanto ha vissuto non era un rapporto d’amore (come credeva) ma, piuttosto, d’insana sottomissione (come non riesce ad accettare).

La donna che ha subito violenza molto spesso si vergogna e ha paura; come primo atto immediato ha quindi bisogno di essere ascoltata ed accolta nella sua sofferenza. Per ogni donna, infatti, la fine di un rapporto comporta una destrutturazione, il crollo di un assetto psicologico che aveva lentamente costruito nel tempo. In questi casi, manifestare piena solidarietà ed empatia, senza avere pregiudizi o atteggiamenti giudicanti, è quindi fondamentale per avviare un pieno processo di ristrutturazione psicologica e personale.

A cura di Dott.ssa Orenada Dhimitri,
Psicologa, Psicoterapeuta, Psicosessuologa

 

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