Impossibile prevedere quanto dureranno gli effetti a lungo termine del massacro del 21 Gennaio sul corpo martoriato da altri precedenti massacri della società albanese. In quella protesta il moto di ribellione di una gran parte di quella società scese in strada a Tirana per reagire al degrado politico e sociale, la corruzione e la povertà che ancora imperversano nel lembo balcanico che costituisce l’Albania. Fatto sta che quel massacro rappresenta ancora una Waterloo per il nostro paese e la sua pace sociale.
I fatti della protesta dimostrarono l’inconsistenza della erronea convinzione che pareva aver narcotizzato la coscienza critica di alti esponenti della nostra classe dirigente e membri della comunità internazionale sul fatto che la democrazia finalmente cominciava a mettere solide radici nel paese balcanico. Possiamo ricordare i continui riferimenti dell’ex-presidente della repubblica Topi al paese di cui egli era capo di stato come una “democrazia funzionale” e il giubilo di ambasciatori occidentali dopo che Berisha e Rama si accordarono alquanto frettolosamente nell’aprile 2008 su emendamenti costituzionali importanti (senza consultare Topi, in barba al metodo democratico del dialogo onnicomprensivo…).
L’illusione terminò con gli scontri di quel freddo giorno invernale e la morte in diretta TV di quattro cittadini di fronte alla residenza del premier. Quelle morti ci rimisero nella lista nera dei paesi in crisi e gettarono la nostra società nello shock più completo. Seguì la strisciante guerriglia di attacchi verbali e la mancata collaborazione tra le istituzioni. Il processo che mette alla sbarra gli accusati di “omicidio colposo” è ancora in corso a Tirana, ma la perdita di vite umane per fatti politici dimostrò quant’era lontana l’Albania dalla tanto agognata “democrazia funzionale”.
Come si arrivò al vergognoso massacro? Come in tutte le crisi albanesi a memoria di transizione, all’origine c’erano delle controverse elezioni, stavolta quelle politiche del giugno 2009. I socialisti perdono ma chiedono il riconteggio in alcuni distretti. Le corti elettorali d’appello rigettano i loro ricorsi. In parlamento gli oppositori chiedono una commissione parlamentare d’inchiesta sulle elezioni, la stessa richiesta contenuta in una risoluzione dell’Europarlamento del luglio 2010. Il PD di Berisha non accetta l’istituzione della commissione. Il 21 gennaio i socialisti e i loro alleati chiamano una grande protesta dopo uno scandalo tangentizio che investe l’allora vicepremier Meta. Il raduno degenera in scontri, feriti, sangue e morti. Tra i colpiti con arma da fuoco anche un giornalista, mentre qualcun altro subisce violenza. Seguono detenzioni arbitrarie e violenze nei commissariati di polizia, in barba ai diritti dell’uomo e della libertà di raduno.
Il 21 Gennaio dimostrò quanto poco vale e com’è meschinamente abusata la vita umana in Albania. I morti diventarono immediatamente oggetto della contesa politica. Il premier Berisha in nome di tutto il governo valutò l’accaduto come un colpo di stato. Già la sera prima del raduno su TV Klan egli aveva parlato di informazioni in suo possesso su contatti dell’opposizione con esponenti della criminalità organizzata albanese, “ammonendo” gli oppositori a rispettare la “legge”. Dopo la protesta Berisha usò la sua influenza politica sulla Polizia di Stato per non far eseguire gli ordini di fermo spiccati dalla Procura su membri della Guardia Repubblicana accusati di avere incautamente aperto il fuoco sulla protesta. Un anno dopo su Vizion Plus egli si vantò di questa interferenza, affermando di averla fatta per non permettere attacchi golpisti sulla sede del governo. Però il suo atto assomiglia alquanto straordinariamente a un golpe istituzionale, inammissibile in ogni democrazia. Berisha ha pure rimenzionato più volte l’uso di criminali comuni pagati dagli oppositori durante la protesta. Per una settimana dopo il 21 Gennaio il premier ripeteva che il golpe era ancora in atto, tra lo stupore di tutti gli altri soggetti coinvolti nella crisi. Le sue impronunciabili accuse verbali all’opposizione, la Procura Generale e la Presidenza della Repubblica dimostrarono ancora la polarizzazione che questa figura politica, per quanto votata da moltissimi elettori, immette nella nostra convivenza sociale.
Paradossalmente, se l’intento del fuoco aperto sugli oppositori del “Venerdì nero” era di impedire altre massicce dimostrazioni antigovernative esso è riuscito in pieno. Con stupore l’ambasciatore olandese a Tirana avrebbe raccontato a Top Channel la sua sorpresa nel sentire i timori di scendere a protestare da cittadini dopo la sanguinosa vicenda di quel massacro. Moltissimi dei partecipanti al raduno erano albanesi delle poverissime zone rurali del paese, genti con i maggiori problemi di sussistenza immaginabili e molto lontani dall’etticchettamento come “hooligans” datogli da Berisha e Meta. Questi due uomini si allearono al potere nel 2009 in nome della integrazione dell’Albania in Europa ma appaiono come legati dalla difesa di un insostenibile status quo di dilagante povertà, malgoverno e corruzione. Con la repressione scatenata sugli oppositori del 21 Gennaio il premier di Tirana ha immesso un potente veleno distruttivo sulla coscienza civica dell’Albania, facendola impallidire di fronte all’idea di un futuro dialogo da pari a pari tra società civile e governo per far funzionare le nostre corrotte istituzioni. Le tanti ingiustizie che testimonia il vivere quotidiano in Albania non possono essere trattate e meno che mai risolte attraverso l’esclusione dalla dignità politica di chi non è d’accordo con il potere. Un paese dove la vita e la dignità umana valgono cosi poco da potersi permettere di essere usate in sterili diatribe politiche non diventerà presto un paese normale e meno che mai democratico. Il 21 Gennaio non è l’unica data triste commemorata dall’Albania contemporanea e si aggiunge al 2 aprile ’91 di Scutari, ai morti nei disordini del 1997 e del settembre 1998, ad altre vittime morti attraversando il confine terrestre con la Grecia e quello marittimo con il Salento. E’ un ulteriore monito a farla finire con la lunga transizone improduttiva che ci tiene legati ai più bassi indici di sviluppo europei e a renderci conto che abbiamo bisogno di dialogare civilmente tra di noi più che scontrarci in lotte per il potere che alla fine lasciano indietro una insensata scia di sangue e tantissima rabbiosa desolazione.
Gjergji Kajana, Roma
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