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Lo specchio lessicale

L’emigrante albanese nella babele terminologica
di Rando Devole

Fino agli anni ‘90 nella lingua albanese i termini più usati per indicare colui che lascia il proprio paese per vivere in un altro, cioè l’emigrante, erano kurbetli (oppure kurbetçi) e mërgimtar. Il primo è un turchismo che si può spiegare con la parola turca kurbet (emigrazione); il secondo, mërgimtar, è più recente – coniato durante il periodo del risorgimento albanese – derivante dal sostantivo mërgim (emigrazione) che a sua volta deriva dal verbo mërgoj (emigrare), etimologicamente spiegabile con il latino tardo o l’italiano volgare. Mentre il termine popolare kurbetli designava gli emigranti che lasciavano l’Albania quando era ancora sotto l’occupazione ottomana, la parola mërgimtar, voce dotta, designava gli emigranti albanesi che andavano a vivere all’estero verso la fine dell’occupazione turca e durante il primo periodo dell’Indipendenza.Questo argomento è stato trattato anche da Ardian Vehbiu nel suo interessante articolo Emigrantë, mërgimtarë, kurbetlinj,.
La parola emigrant – diffusa e consolidata solo negli anni ’90 – esisteva già nella lingua albanese, ma solo come voce dotta (ma anche nel linguaggio giornalistico/politico) e comunque non riferita agli albanesi. Com’è noto, il fenomeno dell’emigrazione in Albania subì una brusca interruzione dopo l’instaurazione del regime comunista, il quale, nella sua follia autarchica, bunkerizzò sia i confini interni, sia quelli esterni. Si trattava ovviamente di una sospensione artificiale del fenomeno, il quale non poteva esistere neanche nominalmente.
Durante gli anni del totalitarismo pochi cittadini albanesi potevano lasciare il Paese. Alcuni si assentavano temporaneamente, altri per sempre.
Nel primo caso facevano parte quelli che partivano con il consenso del regime stesso (per motivi di lavoro, di salute, di studio) e che rientravano dopo un periodo stabilito di permanenza all’estero. Gli altri erano quelli che scappavano, per motivi politici o di altro genere, e che venivano bollati come traditori dal regime. Di solito la loro partenza non aveva un ritorno, mentre i loro familiari subivano dure rappresaglie in quanto imparentati con “il nemico”.
Quindi la tipologia delle partenze dall’Albania non includeva quella dell’emigrante, cioè di quella persona che parte per lavorare all’estero, perché la figura stessa era inconcepibile. La propaganda del regime rappresentava la realtà albanese come paradisiaca e unica al mondo. Ovviamente il paradiso, essendo il luogo ideale del benessere, esclude a priori qualsiasi desiderio di fuga, che generalmente appartiene a realtà di sofferenza. In un mondo rappresentato così non c’era posto per la voce “emigrante”, che, com’è noto, ha forti legami con il disagio, con la sofferenza, poiché nessuno mai lascia il Paese dov’è nato e cresciuto senza un motivo che appartenga allo stato di malessere. L’emigrante può lasciare il proprio paese per diversi motivi: politici, economici, culturali, ecc., ma sempre con l’intento di stare meglio nel paese di destinazione. Lo schema mitico su cui si erigeva la propaganda del regime albanese aveva già stabilito qual era il Paese “eletto”, l’Albania appunto, il Paese che offriva la vita migliore ai propri cittadini, nonché il modello da seguire per altri paesi al mondo.
Era dunque logico che durante i decenni del comunismo i termini kurbetli e mërgimtar si riferissero agli emigranti albanesi di un periodo antecedente, così com’era prevedibile che, sotto la pressione del linguaggio mitico del regime, questi vocaboli calamitassero tutta la carica di disagio che l’emigrazione comporta. Infatti i termini suddetti hanno acquistato nel tempo connotazioni sempre più marcate, che hanno a che fare con la dimensione di sofferenza dello sradicamento. Nel discorso totalitario questi vocaboli rappresentavano – con una forte connotazione negativa – non solo il tormento di chi lascia la propria terra, ma, cosa più importante,  gli attori di un fenomeno negativo “definitivamente” e “trionfalmente” storicizzato.

2. Le prime fughe di massa dall’Albania (l’ingresso nelle Ambasciate nel 1990, gli esodi del 1991, ecc.) trovarono un po’ impreparata la lingua albanese, che non aveva i termini adatti per designare i fenomeni in questione ed i suoi protagonisti. La situazione era doppiamente complicata se si aggiungeva l’ambiguità terminologica che lo stesso Occidente (l’Italia in primis) utilizzava all’epoca, quando parlava degli albanesi che approdavano nelle sponde pugliesi.
Mentre i fratelli Popa (entrati nell’Ambasciata italiana negli anni ’80) e i loro “successori” del 1990 (i migliaia di albanesi che entrarono in alcune ambasciate occidentali, tra cui quella italiana) erano facilmente distinguibili come rifugiati politici, quelli che arrivarono con il primo esodo del 1991 riuscirono a stento a guadagnarsi tale definizione. La situazione cambiò nell’agosto dello stesso anno, quando migliaia di albanesi vennero rinchiusi nello stadio di Bari e furono dopo poco tempo rispediti indietro, in quanto non riconosciuti come rifugiati politici.
In quel periodo gli albanesi arrivati in Italia venivano chiamati generalmente “profughi”, un termine che in italiano indica coloro che sono costretti ad abbandonare il paese di origine per gravi motivi legati alla guerra o alla persecuzione. Anche la parola “rifugiato” faceva ogni tanto capolino sui mass media, ma, a causa della sua articolata “specializzazione” giuridica e delle eventuali implicazioni politiche, non era molto diffusa (secondo una interpretazione lo status del profugo cambia in quello di rifugiato quando nei suoi confronti si verifica la tutela ufficiale di un altro Stato). Invece, i vocaboli “immigrati” o “emigranti”, riferiti agli albanesi, erano quasi latitanti.
Il termine “profugo” (dal lat. profugere – fuggire via) era vincente perché offriva una base comune di definizione per tutta quella gente che fuggiva in massa da una realtà tremenda e insopportabile, inseguendo magari un sogno affascinante costruito nelle notti della dittatura. Inoltre, tale parola dava perfettamente l’idea dell’eccezionalità dell’evento, nonché il senso di una certa fatalità per chi li vedeva arrivare alle porte di casa.
Un profugo è un fuggiasco, un disperato, uno che scappa da un destino atroce, che cerca rifugio. Infatti, non è un rifugiato, è uno che sta sospeso nel limbo terminologico, il cui esito può essere talvolta sinonimo del suo destino.

3. Le prime fughe di massa dall’Albania misero in crisi i termini di carattere politico-giudiziario quali të arratisur (scappati) che contenevano implicitamente una condanna senza appello da parte del regime, il quale stava per crollare insieme al suo impianto propagandistico e giuridico. Difatti il vocabolo sopraccitato, venuti meno i presupposti politici, è diventato obsoleto nel giro di pochi mesi. D’altra parte i termini kurbetli e mërgimtar erano troppo arcaicizzati per essere rispolverati dalla connotazione storico-negativa e reinseriti nel linguaggio “nuovo” degli anni ’90.
Com’è noto, i mass media italiani avevano in Albania un pubblico considerevole, che oltre a rispecchiarsi agli schermi convesso-concavi della Rai e Mediaset, usufruiva dei nuovi vocaboli indicanti fenomeni mai verificatisi prima di allora. Infatti, durante e dopo la crisi delle Ambasciate parole come “richiedente asilo”, “asilo politico”, “rifugiarsi”, “rifugiato”, “profugo” godevano una grande audience presso gli albanesi. Fu in quel periodo che nella scena convulsa del lessico albanese fecero ingresso parole come refugjat e azilant. La prima, già esistente nella lingua albanese, non era mai stata utilizzata (così come la parola emigrant) riferendosi agli albanesi; la seconda, probabilmente arrivata con le telefonate degli albanesi rifugiatisi in Germania, ebbe in realtà poca fortuna. La parola “profugo” rimase fuori dal sistema linguistico dell’albanese, forse a causa della sua insita indigeribilità fonetica, forse a causa di un rigetto inconsapevole nei confronti di un termine che associava parecchi momenti di dolore e di umiliazione per l’intera collettività.
Fino ai primi tempi dopo l’esodo verso l’Italia la parola albanese più popolare che serviva per designare gli emigranti era refugjat. Infatti frasi come Djali im është refugjat në Itali (Mio figlio è rifugiato in Italia) oppure Refugjatët shqiptarë në Itali (I rifugiati albanesi in Italia) erano molto usate all’inizio degli anni novanta, indipendentemente dal vero status giuridico di cui gli albanesi godevano nel Paese di accoglienza.
Il successo del termine emigrant è piuttosto recente, imposto con tutta probabilità dal linguaggio televisivo occidentale, che ha dovuto tenere presente il processo di stabilizzazione del fenomeno migratorio. La contemporaneità della parola emigrant si distingue anche dal punto di vista connotativo. E’ difficile che tale parola venga usata quando si parla, ad esempio, degli albanesi che lasciavano la propria terra durante l’occupazione turca. Quando si dice emigrantët shqiptarë è sottinteso che si sta parlando della nuova emigrazione, quella del dopo Muro per intenderci. Inoltre, sembra che questa parola sia pregna di una positività intrinseca, verosimilmente riconducibile ad un sogno collettivo di fuga, ad un’aspirazione per una vita migliore altrove.
Un giorno forse anche la parola emigrant si piegherà sotto il peso della storia e, senza più eredi, per ultima sull’asse temporale dopo kurbetli e mërgimtar, apparirà in qualche museo pieno di foto ingiallite. A quel punto si potrà dire che l’Albania sarà diventata un paese di immigrati, cioè di imigrantë, una parola non ancora “regolarizzata” nella lingua albanese, ma che alla fine farà la vera differenza.
Rando Devole, Bota Shqiptare
devole@libero.it

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