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Perché il decreto Salvini va rigettato

Primo: le migrazioni di grandi masse umane sono una realtà non sopprimibile. Secondo: i Paesi dell’occidente ricco e produttivo hanno bisogno di capitale umano. Terzo: l’immigrazione porta con se problemi di convivenza e genera insicurezza che, a sua volta, porta intolleranza e pure estremi xenofobia e razzismo. Chi voglia altrettanto seriamente affrontare il tema immigrazione deve impostare programmi che tengano conto di tutti e tre i postulati di cui sopra, e agire fornendo in modo equilibrato risposta a ciascuno di essi. La mera repressione dell’immigrazione finalizzata all’incasso del dividendo elettorale della paura è segno di cecità, non dà risposte efficaci al problema e ne perpetua gli aspetti negativi. Per questo il c.d. decreto sicurezza va rigettato
Di Avv. Gentian Alimadhi

Avv. Gentian Alimadhi

Il dibattito sul decreto sicurezza e la presa di posizione dei vari sindaci che sta occupando buona parte delle pagine giornalistiche degli ultimi giorni, interpella la mia attenzione sulla questione. Sento di dover dare  il mio punto di vista il quale non può prescindere da un giudizio di carattere giuridico, prima, e politico/umano, in un secondo momento. Prima di entrare nel labirinto che caratterizza l’ordinamento legislativo italiano, premetterei quello che è il nocciolo della questione: può un sindaco sconfessare una legge dello Stato che sancisce che “il permesso di soggiorno (inteso quale titolo provvisorio in attesa del riconoscimento della protezione internazionale) non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica…”?

Premettiamo l’inciso che un sindaco, essendo qualificato giuridicamente come ufficiale di governo, eletto ma sempre ufficiale di governo, per legge deve applicare la legge. E se un sindaco nutra delle riserve, debba cercare di attivare i canali consentiti dalla legge affinché la questione finisca davanti alla Corte Costituzionale, quale organo preposto a sciogliere eventuali questioni di legittimità. Se disattende la legge dello Stato, commette un illecito, quindi passibile di sanzione. Se la mossa dei sindaci “dissidenti” la ipotizzassimo come politicamente voluta, allora questi sindaci li potremo considerare dei martiri della causa poiché lo Stato, una volta commesso l’illecito, si vedrebbe costretto a sanzionarli. Tornando alla legge in discussione, pare incontrovertibile che sia una legge di impronta razzista, a tratti insensata ma comunque inutile. Prima di passare all’esame dal punto di vista strettamente tecnico-giuridico della norma e del conflitto che n’è conseguito in questi giorni, mi rimane ancora da comprendere il perché della esclusione dall’iscrizione anagrafica di coloro che attendono il riconoscimento dello status da parte della competente Commissione territoriale ancorché titolari di un permesso di soggiorno con possibilità di svolgimento attività lavorativa. 

Pertanto, esaminando la questione da un punto di vista prettamente normativo – di legittimità, si giungerebbe a dare torto, se non da un punto di vista morale, da quello del rispetto della legge nazionale, alla ferrea presa di posizione del sindaco Orlando ed altri che gli si sono allineati. Più precisamente, concedere la residenza allo straniero che sia in attesa della decisione sulla propria domanda di richiesta di asilo, è un diritto che lo Stato potrebbe – fuori da ogni logica – arbitrariamente negare. Vediamo il perché.

Il D.Lgs. 142/15 (“procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale”) dà il diritto allo straniero che abbia presentato domanda di protezione internazionale (cosiddetto diritto di asilo sancito dall’art. 10, comma 3, della Carta Costituzionale) al rilascio di un permesso di soggiorno temporaneo in attesa della decisione dell’organo preposto sulla propria richiesta. Grazie al rilascio del permesso di soggiorno, lo straniero ha dunque il diritto di soggiornare legalmente sul territorio della Repubblica, oltre ad altri benefici, come quello dell’iscrizione al servizio sanitario nazionale.

Prima del Decreto Salvini (D.L. 113/18) lo straniero a cui era stato rilasciato il menzionato permesso di soggiorno veniva iscritto nei registri dell’anagrafe dei cittadini residenti in applicazione al comma 7 dell’art. 6 del Testo Unico dell’Immigrazione (D.Lgs. 286/98 c.d. TUI), il quale dispone che: “Le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione”. Lo straniero regolarmente soggiornante è colui che sia in possesso del permesso di soggiorno il quale, si trova dunque a possedere gli stessi diritti del cittadino italiano con specifico riguardo alle iscrizioni anagrafiche. 

Con l’entrata in vigore del Decreto Sicurezza, si sono palesati due contrasti normativi.

– Il primo riguarda, come detto, la divergenza tra l’art. 6, comma 7, TUI, in quanto il D.L. 113/18 e l’art. 13, comma 2 (modificando il D.Lgs. 142/15), dispone che: “Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 (cioè per motivi di asilo) non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del Testo Unico Immigrazione”.

– Il secondo riguarda invece la modifica del D.Lgs. 142/15.

Ora, considerato che il Decreto Sicurezza non ha espressamente abrogato l’art. 6, comma 7, del TUI, per risolvere questa antinomia tra norme giuridiche ci si dovrà rifare al principio “lex posterior derogat priori” (latino: “la norma posteriore deroga quella anteriore”) ovverosia al criterio cronologico. In base a questo criterio, in caso di contrasto tra due norme giuridiche prevale quella che è stata promulgata successivamente, ossia quella più recente. La norma anteriore cessa quindi di produrre i suoi effetti con l’entrata in vigore della norma posteriore; si parla, in questo caso, di abrogazione  tacita della prima da parte della seconda.

Ciò detto, nessuna problematica parrebbe sussistere nel caso oggi trattato, essendo il Decreto Salvini quello cronologicamente più recente rispetto al Testo Unico dell’Immigrazione datato 1998.

Però tale affermazione non può valere anche nei confronti del comunque più antico D.Lgs. 142/15 sulle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale). Difatti, il criterio cronologico è recessivo rispetto a quello gerarchico (espresso dal brocardo “lex superior derogat inferiori“); pertanto, la norma posta da una fonte inferiore non può mai abrogare quella posta da una fonte gerarchicamente superiore, sebbene ad essa posteriore.

La gerarchia delle fonti del diritto prevede che nel nostro ordinamento la Legge – e gli atti aventi forza di legge, come i Decreti Legislativi ed i Decreti Legge – siano inferiori solamente alla Costituzione. La loro supremazia resta secondaria solamente alle fonti del diritto Comunitario, ed ovviamente alle fonti del nostro ordinamento che le recepiscono attuandole nel nostro ordinamento.

Ebbene, il D.Lgs. 142/15 è stato emesso in attuazione della direttiva 2013/33/UE recante “norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale”. Dunque lo stesso non poteva essere modificato dal D.L. 113/18 (Decreto Sicurezza) in quanto emesso in attuazione di una norma comunitaria gerarchicamente superiore.

Ciò è vero solo in parte in quanto nel caso di specie non parrebbe sussistere alcuna antinomia / contrasto di norme. Vero che il Decreto Sicurezza ha modificato il D.Lgs. 142/15 aggiungendo all’art. 4 il comma 1 bis che prevede che il permesso di soggiorno non costituisce più titolo per l’iscrizione anagrafica, ma tale emendamento è solamente un’aggiunta, che non abroga una precedente disposizione. Difatti, come visto, il diritto ad essere iscritti nel registro dell’anagrafe sussisteva solamente grazie all’art. 6, comma 7, TUI, il quale abbiamo visto essere stato implicitamente abrogato.

 Anche qualora volessimo sviscerare la Direttiva Europea 2013/33/UE attuata con il D.Lgs. 142/15 scopriremmo che il Decreto Sicurezza non è in contrasto con alcun principio in essa contenuto. Invero, all’art. 7 della stessa Direttiva UE (Residenza e Libera Circolazione) è affermato, con riferimento ai richiedenti la protezione internazionale, che: “Gli Stati membri possono stabilire un luogo di residenza per il richiedente, per motivi di pubblico interesse, ordine pubblico o, ove necessario, per il trattamento rapido e il controllo efficace della domanda di protezione internazionale”.

Dunque, anche dalla lettura della normativa superiore europea si comprende come nessun contrasto tra norme sussista nel caso di specie, discorrendo la Direttiva di mera facoltà (e non obbligo), per gli Stati membri, di iscrivere nel registro della popolazione residente gli stranieri richiedenti asilo.

Aldilà della discesa nella contorta e cavillare interpretazione delle leggi sorta in seguito all’entrata in vigore del c.d. decreto sicurezza e della presa di posizione da parte di determinati sindaci coraggiosi, chi voglia seriamente riflettere sul fenomeno immigrazione, non potrà ignorare tre incontrovertibili postulati.

Primo: Le migrazioni di grandi masse umane, indotte da esplosione demografica in vaste aree del globo, tensioni geopolitiche e mutamenti climatici, sono una realtà non sopprimibile.

Secondo: I Paesi dell’occidente ricco e produttivo hanno bisogno di capitale umano per sostenere le proprie economie e il proprio welfare.

Terzo: L’immigrazione porta con se problemi di convivenza e genera insicurezza che, a sua volta, porta fastidio, intolleranza e nei casi estremi xenofobia e razzismo.

Chi voglia altrettanto seriamente affrontare il tema immigrazione deve impostare programmi che tengano conto di tutti e tre i postulati di cui sopra, e agire fornendo in modo equilibrato risposta a ciascuno di essi.

Negare il primo dei postulati significa parlare di un mondo che non è quello in cui viviamo. Tener conto solo di esso e rassegnarsi alla inevitabile invasione, magari in nome di un (malinteso) senso umanitario, evoca reazioni incontrollate e normalmente di segno anti-umanitario.

Negare il secondo punto significa condannare al declino le economie dei Paesi più evoluti. Per contro focalizzarsi solo su di esso, cioè sulla sola importazione di capitale umano necessario, significa promuovere una riedizione, magari edulcorata e forse più mite (ma non è detto), delle trascorse stagioni nelle quali i Paesi più in ritardo con lo sviluppo venivano relegati al ruolo di fornitori di braccia e di materie prime a basso costo.

Negare il terzo degli assiomi significa infine disconoscere la causa di un malessere che attraversa l’intero occidente e ne condiziona i comportamenti elettorali e politici, fino a minare i fondamenti della sua civiltà giuridica, a partire dai diritti dell’Uomo e dalla opzione democratica.

Quindi una civile e ragionevole politica dell’immigrazione sarà quella che tiene conto di tutti i suddetti fattori. Accetterà la realtà dei flussi migratori come fenomeno ineluttabile del corpo vivo dell’umanità. Considererà l’immigrazione come un fattore utile al sostegno dell’economia e del welfare. Non perderà di vista la sostenibilità del fenomeno regolandone l’affluenza, sia in termini di offerta di casa, formazione e servizi ai nuovi arrivati sia in termini di contenimento degli inevitabili disagi prodotti dall’inserimento di culture e abitudini altre nel tessuto sociale che accoglie i nuovi arrivati.

La mera repressione dell’immigrazione finalizzata all’incasso del dividendo elettorale della paura è segno di cecità, non dà risposte efficaci al problema e ne perpetua gli aspetti negativi. Per questo il c.d. decreto sicurezza va rigettato.

Per contro l’atteggiamento di quanti invocano un atteggiamento esclusivamente ispirato a sentimenti umanitari rischia, al di là delle lodevoli intenzioni, di portare acqua alla politica della repressione, nella misura in cui disconosce le inquietudini e le paure così tanto presenti nell’opinione pubblica, a partire dai ceti più esposti alla crisi.

BRENGA IME SHQIPTARE – Aurelia dhe Xhuzepe

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