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Quando il fornello a cherosene costituiva la nostra cucina

Come eravamo…
di Adela KOLEA

Se vi parlassi di un certo “Fornello a cherosene”, siate pur certi che non sto per riportare qui qualche racconto che si riferisce ad esempio, ad un accampamento militare, e tanto meno a qualche picnic dell’arco di tempo compreso tra le due Guerre.
Non sto nemmeno citando l’elenco di determinati venditori di antiquariato.
Non sto per riproporre una storia letta da qualche parte ed inerente ad un qualsiasi paese europeo in cui probabilmente il fornello a cherosene era già stato in uso, forse a fine ‘800, primi del ‘900 questo sì, ma qualcosa mi dice che la differenza la fa proprio la clessidra del tempo, relativamente riferendosi ad ogni luogo.

Ebbene, sto per raccontarvi di un inseparabile oggetto domestico in un frammento della nostra storia di vita – e nemmeno tanto remota direi – quella dell’Albania negli anni ’80: “Furnela me vajguri”.

In quel periodo, la nostra quotidianità era indubbiamente collegata ad un rapporto prettamente pratico ed indispensabile a questo oggetto domestico, “Furnela me vajguri” , per il semplice motivo che era considerato come il più usuale – per non dire l’unico – per la nostra cucina anzi, se vogliamo essere più corretti nell’attribuirli la sua giusta rilevanza: era colui, il fornello a cherosene che costituiva proprio la nostra cucina!

Dunque, il primato spettava a lui nella categoria, in quanto i più “eleganti” fornelletti a resistenza elettrica venivano usati di meno, non solo perché si trovavano più difficilmente in circolazione, ma anche per un semplice motivo: il risparmio energetico. D’inverno invece si accendeva la stufa a legna e si approfittava per cuocere i cibi anche lì. Sul discorso del trasporto della legna da ardere nei vari piani dei condomini, caricata sulle spalle, chiaramente salendo a piedi fino al più alto dei piani, solitamente il quinto, parleremmo forse un’altra volta.

I bambini dovevano rigorosamente mantenere una certa distanza da questa fonte di energia e di solito nelle nostre piccole case veniva accuratamente allestito l’angolo cottura, suddiviso da qualche parete o tenda improvvisata, in cui regnava lui, il fornello a cherosene! Emanava il suo tipico odore, causava anche del bruciore agli occhi per il fumo della sua fiamma, ma del resto, non c’era scelta: andava adoperato per cuocere il cibo per le famiglie.

Di solito costruito in ottone, con un piccolo serbatoio in cui vi veniva versato il combustibile liquido, dopo essersi accertati che i fili di cotone per il drenaggio del cherosene fossero stati sistemati a dovere per far salire il fuoco nel modo giusto – spesso queste strisce di cotone venivano realizzate anche ritagliando degli stracci da vecchi abiti diventati ormai fuori uso -, che il cerchio poggia pentole o tegami fosse stato ben fissato, il fornello diventava protagonista negli orari in cui si cucinava, riportando una fusione dell’odore del liquido combustibile, con quello del fumo, a quello dei cibi.

Un altro particolare che ricordo e di cui senza, il nostro fornelletto non poteva funzionare, era proprio il momento quando andavamo al punto vendita e distribuzione del cherosene, armati di taniche di varie dimensioni, forme, materiali – plastica o ferro – per comprare e far rifornimento della materia prima, di questo liquido combustibile.

Se devo essere sincera, questa era una delle commissioni assegnatomi dalla mia famiglia – nonostante il mio turno capitasse raramente, perché era il papà che di solito si prendeva questo incarico – che più odiavo.

Infatti, la tanica “riservata” a me per questa missione si differenziava dalle altre che avevamo in casa. Era piccolina, in proporzione alla mia età e più avanti capii che i miei mi assegnavano questo compito proprio per responsabilizzarmi e per rendermi partecipe e attiva negli impegni di casa.

Il punto vendita del cherosene si avvistava tranquillamente già da lontano per una particolarità: la gente, visto che doveva aspettare anche per delle ore l’arrivo del rifornimento, faceva lunghe e interminabili file davanti al negozio, “facendosi rappresentare” per un certo tempo anche dalle proprie taniche per il kerosene.

Ebbene sì, la gente lasciava a seconda l’ordine del proprio arrivo le sue taniche sistemate ed incolonnate e si allontanava per effettuare qualche altra commissione.

In questa fila di “tristi taniche” – era così che io le chiamavo – c’era una tanica più piccola delle altre che si notava, non tanto per la sua forma o materiale, ma per la sua colorazione un po’ bizzarra, per il fatto che io l’avevo dipinta!

Già! La tanica metallica del kerosene, io ai tempi una bambina delle scuole elementari e con una dose notevole di creatività, l’avevo dipinta con delle vernici, con quelle poche in mio possesso e che mi aveva prestato mio padre, facendovi dei disegnini colorati! Era la più bella della fila e, una volta riempita, non mi faceva neanche sentire più di tanto il peso del suo contenuto ed il suo cattivo odore, proprio per il suo aspetto che io avevo “personalizzato”.

Mia nonna, il vecchio fornello lo conservò anche dopo gli anni ’90, periodo in cui incominciò il cambiamento del sistema politico e sociale e di conseguenza, anche quello dello stile di vita per noi albanesi. Come si faceva a disfarsi così in fretta di un mezzo che le era stato indispensabile per cucinare per i suoi figli ed i nipoti, per così tanto tempo?

Nonostante la nuova stufa, e pian piano, anche la nuova cucina vennero allestite a casa sua, l’angolo del fornelletto a cherosene rimaneva custodito come quello di un museo dentro casa. Mancavano le transenne, ma noi nipoti eravamo consapevoli di quelle transenne immaginarie che circondavano quel relitto, il quale meritava – nonostante il menefreghismo che spesso viene attribuito alla giovane età – per rispetto della nonna e delle sue fatiche, di essere lasciato lì anche per ricordarsi da dove si era venuti. Forse in questo modo, semplicemente si avrebbe avuto qualche chiarezza in più sulla determinazione nei nostri eventuali passi futuri.

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