Di Marco Pacciotti
Ci sono voluti migliaia di morti in mare affinché l’UE maturasse una svolta decisiva nell’approcciarsi a questo dramma umanitario in corso da anni.
I commenti si dividono oggi in base agli orientamenti politici e culturali. È inevitabile forse che sia così ma questo non aiuta a inquadrare bene gli effettivi enormi progressi né alcune lacune da colmare.
Giustamente si pone grande attenzione alla redistribuzione dei migranti forzati in arrivo e alle quote parte fra i paesi europei. Si è anche dato risalto alle modalità di contrasto alle organizzazioni criminali che gestiscono questa remunerativa tratta di esseri umani. Due decisioni importanti alle quali sarà giusto dare seguito in poche settimane. Infine pochi altri hanno evidenziato la volontà di attivare una partnership con alcuni paesi africani per offrire la possibilità a chi fugge di essere accolti e poter chiedere protezione ed asilo prima di arrivare in Libia.
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Lo scorso 23 aprile, con scarsa attenzione dei media, una risoluzione del Parlamento europeo gettava le basi per la approvazione in sede di Commissione di quell’impianto di provvedimenti approvati il 13 maggio. La cosa da segnalare è che quel voto favorevole ha visto il saldarsi delle più grandi famiglie politiche europee e l’isolamento di quelle più estremiste e radicali che considerano ancora oggi queste persone in fuga da guerre e persecuzioni, una minaccia e non delle vittime. Un voto importante merito di un lavoro di squadra come ha riconosciuto la stessa Mogherini con una enfasi non casuale nella scelta di questo termine. Una squadra infatti di solito agisce collettivamente per il raggiungimento di un obiettivo comune. Un obiettivo in questo caso che richiede un grande sforzo per i diversi campi di azione nei quali era ed è necessario intervenire.
Questa premessa per arrivare a porre una domanda semplice che necessita di una mentre risposta articolata. La domanda è “ma perché non si è fatto prima?“. Io credo che la risposta più esaustiva sia che anche nel recente passato è mancata la volontà e forza politica per affrontare questo tema in chiave europea. Provo a spiegarmi proprio per la premessa fatta di quanto la risposta non sia semplice. Nella storia a volte i cambiamenti nelle politiche di governi o istituzioni internazionali vengono determinate da grandi eventi, a volte drammatici che modificano gli scenari preesistenti e il grado di consapevolezza sulla portata di alcuni fenomeni. Su questo si innestano poi scelte politiche che risultano decisive.
Nel caso in questione il naufragio al largo di Lampedusa del 2013 e quello di poche settimane fa con oltre 800 vittime sono i due eventi che delimitano temporalmente e innescano una serie di reazioni che porteranno a questa svolta nella politica europea. Una svolta i cui esiti positivi non erano scontati e sui quali hanno inciso molto le scelte fatte da alcuni governi, in primis quello italiano. La prima e più dirompente fu Mare Nostrum, seguita dalla tenacia dimostrata nel voler proporre alla UE un diverso approccio durante il semestre europeo a guida italiana e infine la indicazione della candidatura della Mogherini – fortemente politica come lei stessa dichiarò. Scelte politiche giuste che hanno contribuito in modo decisivo al cambio di paradigma nelle politiche europee e in un approccio più pragmatico e dinamico. Dopo la tragedia di Lampedusa la scelta unilaterale italiana di approntare l’operazione Mare Nostrum ci ha conferito una autorevolezza morale enorme agli occhi dell’opinione pubblica mondiale e ha sottolineato l’assenza quasi totale dell’Europa sul piano operativo e politico. Una UE allora ancora trincerata dietro il trattato di Dublino (prevede che lo Stato membro competente all’esame della domanda d’asilo sarà lo Stato in cui il richiedente asilo ha messo piede per la prima volta nell’Unione europea), quasi fosse un dogma con l’inevitabile conseguenza di curvare la propria politica di intervento a una logica securitaria, incentrata prevalentemente al pattugliamento dei propri confini marini e terrestri, delegando a pochi paesi membri l’onere dell’accoglienza in cambio di fondi, come se questo fosse un tema dei singoli paesi toccati dagli sbarchi. Lampedusa era quindi solo un’isola italiana e non il confine a Sud dell’Europa come i fatti hanno poi dimostrato. Una visione miope e che denunciava la mancanza di una soggettività politica della UE. A distanza di pochi mesi e dopo l’ennesima tragedia del mare, sembra che tutti quei paletti che venivano rappresentati come inviolabili siano venuti meno. La politica voluta da questa Commissione, la spinta fortissima dell’Italia che ha saputo stringere alleanze con altri paesi europei, il lavoro prezioso di nostri europarlamentari, hanno concorso a creare le condizioni per un radicale cambio di lettura del fenomeno e di ripensamento nella strategia di intervento. Continuare a ritenere possibile affrontare un simile dramma umanitario di scala intercontinentale rafforzando il pattugliamento e dando un po’ di contributi economici ai paesi europei era non solo ingiusto eticamente ma inefficace. C’era bisogno di una forte iniziativa europea in politica estera che da una parte coinvolgesse le Nazioni Unite per quanto riguarda alcuni interventi di natura militare a contrasto dei cartelli criminali e dall’altra costruisse con gli stati africani interessati dal fenomeno una collaborazione forte per garantire maggiori tutele e protezione ai profughi.
Questa a mio avviso era premessa politica indispensabile affinché si potesse arrivare a rimettere in discussione il trattato di Dublino ormai superato dai tempi e dai numeri, che solo un approccio ideologico ed egoista giustificava come unico riferimento in materia, portando a ignorare sia l’articolo 78 del trattato di funzionamento dell’Unione Europea sia la Direttiva 55 del 2001. Strumenti che invece avrebbero potuto permettere da subito l’adozione di politiche di cooperazione fra gli stati membri per ridistribuire equamente il carico dell’accoglienza.
Queste cose, specie se si concretizzeranno in tempi congrui, oltre a determinare un effettivo miglioramento della macchina di salvataggio, accoglienza e integrazione dei rifugiati, rappresenteranno la testimonianza tangibile di una Europa finalmente forte politicamente. Una politica coraggiosa e responsabile che individua i diversi livelli dei problemi da affrontare, dotandosi di una strategia unitaria con strumenti di intervento mirati, scegliendo con nettezza un approccio multilaterale e in un quadro di diritto internazionale. Un segnale forte e chiaro da parte dell’Europa quindi, a cui dare continuità e da implementare. Penso che la nostra politica estera comunitaria possa rafforzarsi ancora seguendo due direttrici di intervento finora non ancora ben delineate ma che emergono da una lettura attenta dai documenti di questi ultimi mesi, che dimostrano una visione differente del mondo e una marcata consapevolezza del ruolo che potremmo svolgere. La prima è quella di sostenere tutte le iniziative di pace nelle sedi internazionali per arrivare alla risoluzione diplomatica delle diversi crisi che determinano la fuga di queste persone, a partire da Libia e Siria. La seconda è di sviluppare politiche di cooperazione e co-sviluppo nell’area mediterranea e in generale con quei paesi africani e non, che si fanno carico quasi da soli della accoglienza di milioni di rifugiati e che stiamo coinvolgendo nelle operazioni di messa in sicurezza dei migranti e nella lotta ai trafficanti. Così l’Europa sarà più forte perché meno sola.
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