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La piccola, grande saga carceraria di Besnik Mustafaj

Di Mauro Geraci [*] 

 

Piccola saga carceraria è anzitutto un romanzo che s’inserisce perfettamente nella vastissima letteratura e memorialistica carceraria fiorita in Albania, specie all’indomani della caduta del regime comunista, condensandone nello stesso tempo il ventaglio tematico. Si può dire che questo romanzo di Besnik Mustafaj, appena tradotto in italiano da Caterina Zuccaro e pubblicato da Castelvecchi editore, rappresenti una sintesi straordinaria dei motivi, dei contrasti, dei paradossi, dei drammi carcerari diffusi in un’amplissima burgologji o carcerologia, la chiamerebbe il grande poeta carcerato Visar Zhiti. Una narrativa carceraria che qui non provo neppure a riassumere ma che dal Libri i burgut (Libro del carcere) di Arshi Pipa e dal Diario di Fatos Lubonja giunge alle trame che molti scrittori continuano a situare nella dimensione carceraria, tra cui penso Ahmet Dursun e al suo Pena e gardianit (La penna del carceriere) del 2009.

Questa sintesi Mustafaj la compie attraverso un’estesa storia familiare che, grosso modo, dalla monarchia di Re Zog d’Albania, dal fascismo e dalla Resistenza antifascista giunge al 1991, anno conclusivo cinquantennio comunista che, così, rappresenta il principale scenario storico del romanzo. Si tratta di una piccola saga familiare che, però, a mio avviso, rinvia a una grande sagra non solo familiare ma anche nazionale, simbolica ed esistenziale albanese.

La piccola saga è quella delle famiglie Huta e Hidi che, con le nozze di Bardhyl (Luli) e Linda, si uniscono in una promettente alleanza matrimoniale. Due famiglie che quindi s’avvicinano, s’incontrano, s’uniscono e si riproducono in un comune anche se opposto destino carcerario: quello di chi, come il partigiano Oso Huta, il carcere politico l’aveva pesantemente ed eroicamente subito, quello di chi come Hyqmet Hidi, sin da ragazzo aveva ciecamente servito l’amministrazione della Repubblica socialista ricoprendo con ineccepibile rigore e, si può dire con folle amore, il ruolo di guardiano del carcere. Il destino o, meglio, la storia politica comunista, vorrà che in quel paese-carcere dai confini blindati dal filo spinato e da 750.000 bunker di cemento armato, Luli, nipote di Oso, si ritroverà anch’esso condannato e carcerato politico del regime e si ritroverà a concepire un figlio con la moglie Linda, nipote del carceriere Hyqmet, proprio in carcere, in una stanza fumosa, senza finestre, eccezionalmente concessa ai carcerati per incontrare di notte le loro mogli, agli occhi di un terzo, di un altro, di una guardia del popolo che, in cambio del favore, al buio era tenuto a registrare e a interpretare in senso politico ogni sospiro, ogni sommessa parola, perfino il pianto di una coppia ghiacciata che, in quel luogo, non potrà che concepire un bambino fatto di pietra. Così come di pietra furono le statue che il guardiano Hyqmet, nonno del bimbo di pietra, aveva costruito e chiuso nelle celle al momento in cui, dopo la seconda guerra, i partizan saranno scappati dal carcere per prendere il potere con il sangue, lasciando Hyqmet solo a piangere, a impazzire, a non avere nessuno più da rinchiudere, ritrovandosi guardiano di un carcere vuoto che così riempie di statue, di carcerati di pietra. Poi arriverà perfino a incarcerare la moglie e, in preda a un antico habitus carcerario, a murificare se stesso e a far nascere su di lui una versione maschile della nota novella di Rozafa o del busto murato dentro al ponte di Berat su cui s’interrogò già nel 1946 Margaret Hasluck, The bust of Berat, e oggi il reporter Fatos Baxhaku in un volume manco a farlo apposta intitolato Gur, Pietra.

Attraverso questa saga familiare Mustafaj sintetizza anzitutto l’insieme degli usi, dei costumi, delle pratiche diffuse in un paese che del carcere aveva fatto la sua principale istituzione di controllo e riproduzione della vita sentimentale e sociale: “Che suoni hanno i nostri pianti? – domandava disperata Linda a Luli in quella forzata notte d’amore in carcere – Te lo dirà lui”, rispondeva Luli, alludendo alla spia, all’occhio vigile del popolo introdotto perfino nel letto dove i due avrebbero dovuto fare l’amore. Dall’altro lato, allo stesso modo, “La vita è diventata il suo carcere – si diceva del guardiano Hyqmet nella sala da barba -. Ha dimenticato come si dorme in casa. No, non si riprenderà più”.  Attraverso la piccola saga Mustafaj descrive la vita carceraria nei suoi piccoli riti quotidiani, nei suoi ritmi, nei suoi isolamenti, nelle piccole solidarietà quotidiane tra i carcerati, nei suoi luoghi abituali, nei contrasti che fanno del carcere un luogo tanto temuto quanto esaltato, tanto patito quanto eroico, tanto taciuto quanto narrato; un luogo che, paradossalmente, dava vita a una comunità ristretta, carcerata, a qualche livello protetta e sottoprotezione, rispetto a una società esterna che, durante il regime, risultava ancora più carcerata, più esposta, ancora più sorvegliata dall’occhio vigile del popolo, da quello che l’interessantissimo scrittore albanese di cui mi sto occupando, Robert Prifti, in un suo romanzo chiama Syri i Polifemit, L’occhio di Polifemo, e che il regista Edmond Budina vuole inserire in un suo prossimo film sulla grande scrittrice e poetessa condannata Musine Kokalari. Perché una volta fuori dal carcere le famiglie venivano spezzate, smembrate, internate, suddivise nei campi di lavoro; c’era chi dopo il carcere avendo perduto ogni cosa, ogni casa, ogni persona cara e faceva di tutto pur di ritornare dentro, pur di ritrovare disperatamente quella perduta domesticità e umanità carceraria. Questo è anche il destino di Nik Mara, protagonista del racconto L’ombra che in piena Albania comunista Prifti scrive di nascosto e in un italiano perfetto: uscito dal carcere Nik non trova più nessun parente o amico, la sua libertà è un deserto sociale; trova un prete che gli consiglia di credere in Dio e lui risponde “no, io credo solo in Gesù Cristo” e, così, commettendo volutamente quest’altro reato politico contro l’ateismo di Stato, Nik riesce a farsi finalmente e nuovamente internare nelle patrie galere.

Mario Bova, Mauro Geraci, Besnik Mustafaj, Blerina Suta e Caterina Benelli alla presentazione a Roma del romanzo Piccola saga carceraria Ma il libro di Besnik Mustafai, dicevo, non è solo un interessantissimo, esemplificativo catalogo degli usi e costumi carcerari d’Albania. Il libro è molto di più. La piccola saga degli Huta e degli Hidi ci conduce, infatti, a poco a poco alla grande saga delle simbologie carcerarie, degli incatenamenti che – come ho avuto modo di osservare attraverso una lunga ricerca pubblicata nel 2014 col titolo Prometeo in Albania. Passaggi letterari e politici di un paese balcanico -, costituiscono parte integrante di un più vasto immaginario albanese. Immaginario che (spesso direttamente come ad esempio in Kadare, in Zhiti e in tanti altri), molte altre volte indirettamente, si richiama a Prometeo, a un prometeismo in cui accanto ai simboli dell’incatenamento e dell’isolamento eternamente e fieramente sofferto, compaiono numerose altre tessere simboliche: il sangue, la rocca la piramide, il bunker, l’aquila, il fuoco, il libro, il ponte, il sotterraneo. Si viene così a comporre uno schema, un mosaico simbolico con cui miriadi di scrittori, poeti ma anche intellettuali e politici albanesi si cimentano, provando a scomporre e a ricomporre, in un incessante tentativo poetico, il passato tragico e il futuro speriamo meno tragico di un’Albania fatale che comunque sfugge sempre e che si avverte sempre sfasata e incompiuta rispetto a quella reale.

Al di là degli usi strettamente penitenziari il carcere in Albania serve anche a essere narrato, a far parlare di sé, a incutere paura ma anche orgoglio. Ancora oggi il Caffè 1 Maji, situato nel centro di Tirana, ogni giorno diventa meta d’incontro per ex detenuti che rivangano, litigano e poi convergono su passate memorie carcerarie che tanto passate non sono; e Fatos Lubonja scrive della nostalgia che lui stesso avverte rispetto a Spaç, Burrël, ai luoghi della sua sofferenza; ancora oggi spesso gli ex detenuti organizzano gite nelle vecchie carceri dismesse del comunismo, pranzano lì, si riconoscono, si fotografano assieme in quei luoghi dopo anni e anni di distanza. Poi questi loro viaggi di ritorno alle carceri diventano spesso reportage sui mille giornali di Tirana. Tornando al romanzo di Besnik, il giornalista della città Andrea Bodeci nei suoi articoli ipotizzava ciò che Hyqmet avesse fatto dopo il suo ultimo giorno di guardia carceraria: “trovava esplosioni spettacolari di fantasia, che sviluppavano sempre meglio la sua idea di autore”. Hyqmet diventa narratore della sua stessa saga carceraria, ne diventa autore. Autorialità e autorità, per riprendere un binomio che ci ricorda l’autore del più grande studio sulla prigionia mai compiuto – Sorvegliare e punire. Nascita della prigione di Michel Foucault – sono due parole che nella letteratura del carcere albanese trovano una quantomai vivida, caleidoscopica sovrapposizione, e la saga grande narrata da Mustafaj lo mostra chiaramente. Il carcere, scrissero provocatoriamente Umberto Eco e il grande Guido Ceronetti da poco scomparso, è luogo letterario per eccellenza. Continuare a narrarlo significa rompere un incantesimo, quello di far ritornare uomini fallaci i bronzi del potere di cui, ne Il Comisario Memo, Dritëro Agolli narrava l’installazione sulle povere, gelide montagne d’Albania; come rintracciare la carne mortale, se non il cuore, di quelli che, anche lo scrittore Ylljet Aliçka, ebbe a definire compagni di pietra.


[*] Questo è l’intervento di Mauro Geraci, antropologo culturale, alla presentazione del romanzo organizzata dall’Associazione culturale Occhio Blu Anna Cenerini Bova in collaborazione con il Centro Studi Confronti e Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). Mercoledì 21 novembre 2018, Roma.

Lexo edhe: 
BURGU SI METAFORË – Recension për romanin nga Rando Devole
LA LIBERTÀ DELLA SCRITTURA NELLA “PICCOLA SAGA CARCERARIA” DI BESNIK MUSTAFAJ – Intervento di Blerina Suta alla presentazione del romanzo

 

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