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Étrangere – Immigrati di seconda generazione

Di Giuseppe Chimisso

Considerazioni a margine dell’articolo “Sette anni fuoricorso”

L’interessante e bell’articolo pubblicato da ORA, rivista dell’associazione studenti albanesi di Firenze, e diffuso da Shqiptari i Italisë, ha il pregio di comunicare al lettore gli stati d’animo, i pensieri e la vita dello studente fuori corso e per di più straniero, in Italia; ma non solo. L’articolo offre molti punti di riflessione ed ha, per altro, la capacità di suscitare numerose problematiche che sono sottintese, una di queste espressa chiaramente nell’ultimo capoverso, quando l’anonimo articolista afferma: “Siamo troppo “albanesi” per vivere in Italia e siamo (pur)troppo “italiani” per tornare in Albania… Viviamo due vite parallele e in tutte e due i casi siamo “étrangere”.

Queste veritiere quanto amare affermazioni mi hanno subito fatto ricordare esperienze personali e racconti di episodi  riportatimi di recente con le conseguenti opportune riflessioni; sia gli uni che le altre vorrei qui riprendere perché rappresentano non solo argomenti a me cari, ma interessanti problematiche interculturali.

Rafia, amico carissimo e da tempo animatore delle iniziative più significative all’interno della comunità marocchina di Bologna, mi ha riportato un’esperienza di viaggio fatta con la sua famiglia, in nave, da Genova a Tangeri, per le ferie estive. Lo speaker della nave all’avvicinarsi della stessa a Tangeri, informava i passeggeri, per la maggior  parte famiglie marocchine provenienti dal nord Italia, della miglia e tempi restanti per l’approdo, fino a quando l’attracco al molo permetteva i passeggeri di allinearsi, felici ma in silenzio, per la discesa. Stessa cosa accadeva nel viaggio di ritorno. Lo speaker, sempre in italiano, inglese ed in arabo, informava i passeggeri del tempo e miglia restanti per giungere a Genova; nel momento dell’attracco al molo, l’annuncio dello speaker “ Genova, i signori passeggeri si predispongano a scendere”, viene accompagnato e quasi coperto dall’Inno di Mameli, cantato all’unisono ed a squarciagola dai numerosi bambini marocchini presenti sulla nave, che lasciano di ghiaccio, stupìti e senza parole i genitori presenti.

Questo l’emblematico episodio e la domanda di Rafia che mi chiede il perché, mi ha rammentato l’ultimo capoverso, più sopra citato, dell’articolo del nostro sconosciuto studente fuori sede, il quale certamente ormai adulto, vive comunque da adulto un disagio interiore che lo fa sentire ‘étrangere’, straniero sia in Italia, sia in Albania.     

Oggi un ampio segmento umano della popolazione infantile e giovanile non italiana vive quotidianamente un conflitto non indifferente, sia emotivo che culturale. Da un lato la scuola ovviamente ancora monoculturale, malgrado gli sforzi per favorire l’integrazione, i progetti pilota e le sperimentazioni interculturali in essere, dall’altro canto i figli degli immigrati che vivono non solo una situazione di bilinguismo, in se intellettualmente positiva, ma sono drammaticamente sospesi  fra due mondi e due culture diverse, quella propria, nel ristretto ambito familiare che sempre più col passare del tempo non considerano sufficiente e quella esterna, della scuola, del gruppo amicale e della società ospitante, di cui si sentono parte integrante ma dove sono considerati ‘stranieri’. Questa situazione crea un disagio psicologico diffuso fra i giovani nella difficile ricerca della propria identità che coincide con il periodo di formazione della personalità ed in alcuni casi il disagio è talmente acuto da sviluppare situazioni pericolose ed antisociali.

In diverse città, non solo nelle grandi metropoli, il fenomeno delle baby gang è purtroppo oramai una realtà presente con le quali fare i conti.

Il rischio reale è che una fascia di adolescenti, che nel tempo può divenire più consistente, possa vivere una situazione di marginalità nei confronti della cultura d’origine conosciuta solo nell’ambito domestico e durante le vacanze nel paese d’origine e di marginalità nei confronti anche della cultura italiana.

Se per il nostro sconosciuto amico fuori sede, il ‘disagio’ di sentirsi “étrangere”, sarà presto superato da quel lento processo di elaborazione di un’identità equilibrata fra le molteplici culture di appartenenza, processo che alla fin fine lo arricchirà, non sempre questo identico processo potrà svilupparsi in modo lineare negli adolescenti che, nel territorio dove vivono, dove vanno a scuola, dove hanno amici, dove spesso sono nati, sempre sono considerati ‘stranieri’, come sempre sono considerati ‘italiani’dagli amici e conoscenti nel paese d’origine che conoscono solo nel periodo delle vacanze.

L’aneddoto della nave nel porto di Genova ci indica che diventa irrinunciabile la richiesta di programmi che contengano percorsi d’arricchimento interculturale dai quali formulare le risposte ai bisogni di ricerca di una identità da parte di sempre più numerosi giovani, risposte che, finalmente, siano declinate come diritto della persona e non più come favore o come mercato, in cui interessati apprendisti stregoni mercificano le esigenze ed i problemi dei giovani cittadini non italiani.

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