Nel documentario «La nave», che andrà al Festival di Torino, l’angoscia di un popolo vista da Tirana e Durazzo
Sejko, regista in Italia: nel ’91 ero uno dei profughi
Di Valerio Cappelli
Si vede un bambino che penzola dalla cima per issarsi sull’imbarcazione in partenza per Brindisi, ma non ce la fa e cade in acqua, un altro con poche bracciate la raggiunge e saluta gli amici rimasti al molo. La gente ammassata, a torso nudo, fa il segno della vittoria con le dita, gridano Italia come se tifassero per gli Azzurri. Il documentario di Roland Sejko, Anija (La Nave), che il 25 viene ospitato al Festival del cinema di Torino, contiene straordinarie immagini inedite sull’esodo degli albanesi. Cambia il punto di vista, rispetto a filmati analoghi come La nave dolce di Daniele Vicari: qui la storia si svolge a Tirana e a Durazzo. «Non mi sono concentrato sull’approdo nei porti italiani, ma sulla partenza delle navi, raccontando per la prima volta “l’arrembaggio”. Ho cercato di capire le ragioni della fuga». E, dalla folla anonima, ha tirato fuori dei volti. Che passato hanno e dove sono oggi. Questa è la storia di Eneida, Kozeka, Arben, Avni, Bashkim, Agron… Ardian era un pilota dell’Aeronautica militare albanese, «gli chiedono di sparare su un’autocolonna di civili, siamo nel 1997, l’anno del crac finanziario, una parte del Paese è in mano ai banditi». È un attimo. Ardian senza dire nulla al copilota sposta la cloche, cambia rotta e vira verso l’Italia. All’altro sta bene così. Oggi fa il pilota civile per una piccola compagnia e arrotonda come ascensorista. La cloche incarna il destino, basta un movimento per cambiare la vita. Quello del ’97 fu l’ultimo inganno per gli albanesi. «Sei anni dopo il collasso del regime comunista, il governo non fece nulla per impedire la truffa delle società finanziarie costituite da persone folcloristiche che promettevano arricchimenti facili. La gente era ingenua. Esplose un’epidemia collettiva, c’era una malattia di base, la voglia di riscatto».
Immagini d’archivio, nobilitate dalla musica (Ma Vlast, La mia patria di Smetana) spiegano le premesse storiche della fuga di massa. Nel 1941 fu fondato il Partito comunista, negli anni si consumò lo strappo dalla Russia, poi dalla Cina, fino all’autoisolamento assoluto. «Eravamo delle ombre con una lontana origine umana», dice un testimone. Per le «attività eversive contro il potere popolare» c’era la condanna amorte. In un processo, davanti alla folla, il giudice accusa l’imputato di «amare la moda e lo stile di vita borghese, e tuo fratello loda la musica italiana e il jazz, non i nostri cantanti ». Otto mesi dopo la caduta del Muro di Berlino, gli albanesi scoprono il loro muro da scavalcare. Le ambasciate a Tirana vengono prese d’assalto, il governo ha ancora in mano i media e manda i pretoriani che gridano a chi si è rifugiato dietro ai cancelli della diplomazia: «Vi hanno ingannati, dove credete di andare?».
Riecco i primi sbarchi in Italia nel 1991. L’Italia è impreparata, l’umanità si affaccia prima dei controlli. C’è la scelta scellerata delle autorità di rinchiudere i 20 mila della nave Vlora allo stadio. Ma allo stesso tempo ci sono le gare di solidarietà, famiglie brindisine per strada con pentoloni che sfamano gli albanesi, gli donano vestiti. Ci sono tragedie che finiscono bene. Al Festival di Torino andrà Majlinda col suo pancione, aspetta un figlio da un italiano, era bambina quando fu adottata in Puglia: «Me la vidi davanti, era da sola, aveva fame, l’abbiamo presa con noi».
«Oltre 1 milione e 200 mila persone fuggirono dall’Albania, una su quattro vive all’estero. C’è da ricostruire un intero tessuto sociale. Oggi nessuno vuole più andare in Italia», dice Roland Sejko, 44 anni. Lui nel 1991 si imbarcò sulla nave Legend, il capitano fu costretto a partire sotto la minaccia della pistola, non c’era da mangiare né da bere. «I miei genitori l’hanno saputo quattro giorni dopo, pensavano che fossi morto. Ho avuto i miei angeli custodi». Parla un italiano forbito, cita Giorgio Bocca («Una patria adriatica che appartiene a tutti»). Lavora all’Istituto Luce a Cinecittà, che ha prodotto il suo documentario.
Valerio Cappelli
Corriere della Sera, 20 novembre 2012
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