Il fenomeno della violenza
La “violenza di genere” — come viene solitamente definita la violenza del genere maschile su quello femminile — è stata in passato un fenomeno pressoché invisibile. Questo, non perché fosse tenuta nascosta, ma perché era talmente radicata nella tradizione, nella cultura, nei valori dominanti, e quindi nelle leggi, da passare totalmente ignorata, quasi si trattasse di un evento ordinario. Fino agli anni cinquanta/sessanta il comportamento aggressivo nei confronti delle donne veniva imputato principalmente a caratteristiche psicologiche maschili individuali devianti dalla norma, oppure veniva ricondotto al comportamento della donna stessa, considerata poco accomodante e disponibile. Si tendeva quindi a spiegare la “violenza di genere” o come risultato di deviazioni personali (p.e. devianza psichica, problemi mentali, dipendenza da sostanze stupefacenti) oppure sociali (p.e. povertà, emarginazione sociale e culturale). Molte di queste spiegazioni si basavano su un’immagine della sessualità maschile concepita come impulso incontenibile da soddisfare in ogni modo, sia col consenso che attraverso la violenza.
Oggi la situazione è radicalmente mutata, grazie anche ad alcuni studi statunitensi in cui si è arrivati perfino a considerare la violenza come fenomeno strettamente legato a una sorta di cancellazione (ancorché simbolica) del genere femminile; una manifestazione diretta, quindi, della volontà di dominio e di subordinazione da parte di un sesso nei confronti dell’altro, percepito come diverso e, per questo, pericoloso. In tale quadro, la violenza non è frutto di una patologia o di un’anomalia, ma, al contrario, è legata alla quotidianità e alla normalità dei rapporti fra uomini e donne nella società.
Secondo i dati Istat del 2013, in Italia una donna su 3 (circa 7 milioni, tra i 16 ed i 70 anni) ha subìto violenza fisica o sessuale nel corso della sua vita. Le diverse forme di violenza si combinano tra loro per autore e tipologia: un quinto delle vittime subisce violenza sia dentro che fuori il rapporto di coppia; il 41% ha subìto violenza sia fisica che sessuale dal partner; un milione e mezzo ha subìto dal partner ripetute violenze. Nonostante questo, solo il 7% delle donne denuncia gli abusi, solo il 25% riceve cure mediche e solo il 5% viene riconosciuta come “vittima di violenza”.
I dati raccolti sottolineano come sia le donne stuprate e picchiate, sia gli uomini che usano loro violenza, appartengano a tutte le età, condizioni economiche, classi sociali, provenienze etniche e culturali. In circa il 50% delle coppie sposate si è verificato almeno un episodio di violenza diretta tra i coniugi: l’atto violento all’interno della coppia rappresenta infatti l’espressione costante di un comportamento volto ad instaurare e mantenere una forte asimmetria di potere nella relazione uomo-donna.
Come si vede, la “violenza di genere” è un fenomeno così radicato nella società, da non potersi considerare solo relativa alle vittime e ai loro familiari: essa rappresenta non solo un’emergenza sociale, ma è un vero e proprio problema di scala mondiale e, come tale, andrebbe inquadrato nelle violazioni dei diritti umani.
Le forme di violenza
Quando si parla di violenza, si pensa immediatamente a quella fisica. Invece, la violenza può avere tante forme più sottili, ma non per questo meno dannose. Tutti quei comportamenti che compromettono l’autostima, la dignità personale, la voglia di vivere sono infatti atti violenti, anche qualora non arrechino danno fisico visibile. Adottare atteggiamenti di denigrazione, controllo e sottomissione – mirati a svilire il modo d’essere dell’altro, fino a considerarlo un oggetto – ha come scopo principale il malcelato tentativo d’instaurare una qualche forma distorta di “potere”: la creazione di una relazione prepotente/sottomesso attraverso cui s’intende soppiantare una parità di ruoli che, per debolezza, non si riesce a sopportare e gestire.
La violenza, oltre che fisica, è quindi d’impronta psicologica: il partner violento spinge l’altro ad isolarsi dagli amici e dai familiari; lo critica e lo sminuisce continuamente, in privato e in pubblico; lo pedina e lo controlla. Questa tipologia di violenza si colloca in pieno nel registro della possessività. L’intenzione, come si è appena visto, è quella di comandare, dominare e controllare l’altro attraverso gesti di umiliazione, critiche avvilenti, gelosie patologiche; utilizzando anche, come armi, il ricatto psicologico (tipo: “se mi amassi, faresti…”), la minaccia (tipo: “se mi lasci, mi vendico”), la svalorizzazione (tipo: “senza di me, non sei nulla”).
La violenza può inoltre essere sessuale: il partner violento impone all’altro di avere rapporti intimi controvoglia, oppure lo costringe ad atti sessuali non desiderati; fa quindi leva sulla paura, minacciando che, se non verrà accontentato, si cercherà un altro partner più disponibile.
La violenza può essere economica: il maltrattante ostacola tutti i tentativi di lavorare o di trovare lavoro del partner; si fa mantenere, oppure mantiene l’altro in una posizione economica totalmente dipendente, privandolo dell’autonomia.
E’ bene quindi tenere sempre presente che gli effetti della violenza sono tanto fisici (contusioni, ferite, lesioni, mutilazioni) quanto psicologici (ansia, depressione, attacchi di panico, disistima di sé, abuso e dipendenza da alcolici e/o sostanze psicoattive, idee e fantasie suicidarie, etc.). Solo così si può comprendere adeguatamente la serietà e la complessità del fenomeno in tutte le sue forme.
La vittimizzazione della donna
La donna sottoposta a violenza subisce un processo di vittimizzazione che inizia con un primo episodio critico di violenza emotiva, seguito dalla volontà di riconciliazione. La vittima e il suo l’aggressore assumono atteggiamenti affettuosi reciproci, vivono una forma di secondo “innamoramento” che solo in apparenza sembra risolvere il conflitto, quando in realtà non è così. La tensione infatti si ricostruisce nuovamente, fino ad arrivare ad un secondo episodio di violenza e/o abuso e successivamente, ancora ad un altro, e un altro ancora. Nel corso del tempo, gli episodi di violenza tendono a diventare sempre più brutali, manifestandosi ad intervalli di tempo sempre più riavvicinati; e così che, gradualmente, la volontà di riconciliazione da parte di entrambi sparisce.
Si entra allora in quel circolo di violenza paragonabile ad una spirale, caratterizzata da stadi successivi che minano profondamente, fino a distruggerla, l’autostima della vittima: si inizia con intimidazioni, poi con l’isolamento, seguito da svalorizzazione e segregazione, passando per l’aggressione fisica e/o sessuale con false riappacificazioni, fino ad arrivare al “ricatto” dei figli.
La violenza domestica intrafamiliare
La violenza fisica e sessuale in un rapporto di coppia è sempre accompagnata da quella psicologica, ed introduce un elemento specifico – la violenza, appunto – all’interno della dinamica relazionale esistente. Di solito gli episodi di violenza si verificano ciclicamente, ad intervalli sempre più brevi, senza uno specifico motivo apparente, e si susseguono in un crescendo di gravità che può mettere in serio pericolo la vita stessa del partner. Questo fenomeno viene definito “ciclo della violenza”; al suo interno si possono distinguere tre fasi: la costruzione della tensione, l’esplosione della violenza, seguita poi dal pentimento/perdono con un ritorno momentaneo dell’affettività nella coppia.
La donna vittima di violenza, nell’infanzia è stata generalmente educata alla repressione (piuttosto che alla gestione e all’adeguata espressione) dell’aggressività; parallelamente, è stata educata alla relazione – a considerarla cardine fondamentale della sua vita – prima come moglie, poi come madre. In questo modo la sua vita è stata già decisa a priori dalle attese e dai dettami familiari e sociali, e sarà pertanto caratterizzata dalla dedizione totale a qualcuno. In questo scenario interiore, il rapporto di coppia in cui ha luogo il “ciclo della violenza” diventa per la donna un susseguirsi di eventi che, come è stato il caso sin dall’infanzia (anche inconsapevolmente), produce una costante svalorizzazione di sé, una profonda rassegnazione nei confronti della situazione in cui si trova e, soprattutto, la convinzione che sia impossibile (e forse, dal suo punto di vista non si debba neanche) sottrarsi al potere dell’altro.
Nello stesso tempo, il comportamento dell’uomo che usa violenza è stato paragonato a quello usato dai torturatori per annientare le loro vittime, ed è caratterizzato da identici effetti destabilizzanti.Si tratta qui di vere e proprie strategie finalizzate a esercitare potere sull’altra persona, utilizzando modalità di comportamento atte a controllare, umiliare, denigrare e infliggere paura. La violenza agìta dall’uomo all’interno della famiglia tende, in tal modo, a stabilire e a mantenere un clima di controllo sulla donna (e sui figli) che può arrivare fino all’abuso.
Chi agisce violenza?
Non esiste un profilo particolare di soggetto violento da cui rifuggire. Solo il 10% di essi è affetto da psicopatologie conclamate; nella maggioranza dei casi a generare violenza, sono invece, cause psicologiche che potremmo quasi definire “normali” (p.e. frustrazione, situazioni quotidiane stressanti, etc.). Non risultano fattori protettivi o favorenti, come l’età, il gruppo (etnico, religioso, socioeconomico) o la professione. E’ bene anche notare che, nella maggior parte dei casi, gli autori di violenza sono persone ben conosciute e molto vicine alle vittime, come un amico, il datore di lavoro, un collega, un insegnante, un compagno di classe, oppure possono avere avuto una relazione pregressa, come un ex fidanzato, oppure avere una relazione in corso, come l’attuale partner.
Il profilo di chi agisce violenza è comunque universale, caratterizzato da labilità emotiva e difficoltà nel controllo degli impulsi. Chiunque non sappia contenere le frustrazioni è più facilmente portato ad infliggere violenza. Le frustrazioni represse si cronicizzano fino a raggiungere un culmine in cui si supera la soglia della loro gestione e sopportazione; ed ecco che, all’improvviso, esplode la violenza.
Spesso, in chi agisce violenza, si riscontra una sorta di ipertrofia dell’autostima: a causa di questa anomalia, si ha bisogno di una costante attenzione e ammirazione dalla parte del partner. La percezione dell’indifferenza o del rifiuto sono motivo di un dolore, talmente profondo, che può scatenare una furiosa reazione di sconcerto e rabbia.
Per esempio, a generare aggressività, può essere la discrepanza tra le aspettative di coppia e la realtà della vita vissuta. Nelle famiglie poi, convivono spesso persone (genitori, figli e nonni) con personalità e aspettative differenti. Si creano così conflitti relazionali e contrasti generazionali che richiedono competenze psicologiche generalmente assenti nel nucleo familiare: quali il saper discutere e confrontarsi (p.e. focalizzando il problema), il saper gestire i conflitti (p.e. non fossilizzandosi su quelli passati), il saper negoziare e mediare, fino ad arrivare a scardinare stereotipi che incatenano entrambi i sessi (p.e. eliminare l’errata convinzione che nel mondo esiste sempre chi comanda e chi subisce; oppure evitare di educare i figli maschi come unici ed esclusivi detentori di potere; etc.).
Come uscire dal circolo vizioso della violenza?
La donna che subisce violenza è una donna normale; una donna normale che è stata oggetto di un’azione terribile, che l’ha sconvolta e resa inerme. E’ quindi portatrice di sfiducia, fallimento, vergogna, paura, senso di colpa. Come primo atto immediato ha bisogno di essere accolta ed ascoltata in questa sua profonda sofferenza.
La violenza, in qualsiasi modo venga esercitata, lascia sempre una traccia profonda nella personalità di chi la patisce. Spesso la donna che subisce violenza non ha la consapevolezza di ciò: è quindi necessario dimostrarle che quanto ha vissuto non era espressione di un rapporto d’amore (come credeva) ma, piuttosto, d’insana sottomissione e dipendenza (come, molto spesso, non riesce ad accettare).
Per ogni donna, la fine di un rapporto comporta una destrutturazione, il crollo di un assetto psicologico che aveva lentamente e faticosamente costruito nel tempo. In questi casi, manifestare piena solidarietà ed empatia, senza avere pregiudizi o atteggiamenti giudicanti, è fondamentale. Cercare, individuare e nutrire tutta una serie di intime risorse quiescenti – conquistando così consapevolezza della propria preziosa unicità – diviene poi essenziale per avviare un pieno processo di ristrutturazione e rinascita psicologica e personale.
Dott.ssa Orenada Dhimitri
Psicologa, Psicoterapeuta, Psicosessuologa
Responsabile Psichesalute.com
orenada.dhimitri@gmail.com