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Albania, il paese che non c’era

Cosa era per l’Italia e gli italiani l’Albania prima che gli sbarchi degli anni novanta la ponessero al centro dell’interesse? La risposta sarebbe semplice: il primo paese tra quelli europei che si incontravano sull’Atlante geografico De Agostani di Novara, su cui studiavamo nelle scuole elementari e medie. Oltre a questo poco o nulla. E con ciò si potrebbe anche terminare l’articolo. Ma oltre ad essere riduttiva questa risposta non sarebbe nemmeno completamente vera. In ogni caso non viviamo negli Stati Uniti, dove nel 1997 in un film, “Sesso e potere” (Wag the Dog) con Dustin Hoffman e Robert De Niro, si ipotizzava una guerra in un paese sconosciuto e lontanissimo e quel paese era appunto l’Albania.

Per noi italiani gli albanesi sono comunque i nostri dirimpettai. Il governo fascista nel 1939 decise di occupare militarmente la nazione nostra vicina. Dopo un’operazione fulminea durata meno di una settimana e costata dodici morti e un’ottantina di feriti, il 16 aprile Vittorio Emanuele III accettava ufficialmente la corona d’Albania, che egli stesso definì, con la consueta eleganza, tratto tipico di Casa Savoia, “una terra con quattro sassi, impercorribile, fangosa, malarica e con montagne dove la semplice vita era un rischio”.

Dopo l’armistizio tra l’Italia e gli alleati del 1943, l’Albania fu invasa dai nazisti. Iniziò a formarsi un movimento di lotta di liberazione guidato dal partito comunista di  Enver Hoxha che l’anno successivo prese il controllo del paese e che mantenne fino al 1990, cinque anni dopo la morte dello stesso Hoxha.

L’Albania era pensata dai più come paese del blocco dell’Est gravitante intorno a Mosca, ma non era assolutamente così. Sicuramente si trattava di un regime comunista ma con diversità evidenti rispetto agli altri paesi dell’Europa Orientale: anzi tutto un marcato nazionalismo e poi un quasi totale isolazionismo. Il culto della personalità resistette molto a lungo e Tirana accusava l’Unione Sovietica di deviazionismo rispetto all’ortodossia marxista leninista.

Del paese delle aquile non si sapeva veramente nulla: si rimaneva a bocca aperta durante le olimpiadi davanti ai prodigi delle ginnaste Olga Korbut o Nadia Comaneci, che non ancora quindicenni volteggiavano sugli attrezzi o tra le parallele con incredibile eleganza e vincendo un titolo dopo l’altro. Impressionati dai record dei nuotatori della Germania dell’Est, prima di sapere che erano viziati dal doping. Sergej Bubka volava sopra i sei mesi con l’asta e stabiliva un record ogni sei mesi e Ivan Lendl e Martina Navratilova vincevano tornei di tennis in tutto il mondo, diventando i numeri uno tra gli uomini e le donne.  
Degli albanesi invece nemmeno l’ombra.

Anche per quanto concerne la cultura il discorso non era molto diverso: Ismail Kadaré, da molti oggi considerato il massimo rappresentante della cultura albanese nel mondo, pubblicava in Italia fin dai primi anni ottanta. Ma di lui in pochi avevano sentito parlare, pochissimi rispetto a Milan Kundera, a Bohumil Habral o Christa Wolf, solo per fare degli esempi.
Poi c’erano i dissidenti perseguitati in patria o fuggiti all’estero: Solzenicyn o Sakharov, per citare solo due tra i più sconosciuti.
E poi instabilità, rivolte: Budapest nel 1956, Praga nel 1968, Varsavia nel 1981. A Tirana invece niente sembrava scuotere un immobilismo che durava da decenni: cambi al vertice del partito e dello stato non erano all’orizzonte e quanto ai dissidenti non se ne sentiva proprio parlare, fino al punto che si poteva dubitare anche che ve ne fossero.

Di conseguenza in Italia le notizie erano sempre molto scarne. Si sapeva di comunità albanesi che vivevano in Calabria e in Puglia, ma si pensava a loro come fenomeno eminentemente folcloristico.
Poi c’era Anna Oxa, cantante di origini albanesi, anzi si pensava che fosse anche imparentata con il dittatore Hoxha, vista anche l’analogia dei cognomi.
Sempre a proposito di Hoxha nelle università italiane girava un curioso aneddoto: durante un corteo di protesta a Cagliari sul finire degli anni sessanta, una studentessa portava un grande cartello con una gigantografia del leader albanese. Il suo professore di Storia dei Partiti politici la riconobbe e qualche giorno dopo, trovatasela di fronte per un esame, le chiese di parlarle dell’Albania e del ruolo avuto dallo stesso Hoxha negli ultimi decenni. Per risposta ebbe un prolungato ed imbarazzante silenzio. Probabilmente una domanda su Ceaucescu o Honecker, non avrebbe avuto una risposta diversa, ma il particolare è interessante perché è vero che, soprattutto durante gli anni settanta ci furono nel nostro paese gruppi dell’estrema sinistra che vedevano nell’Albania una sorta di ultimo paradiso in terra, un luogo dove l’utopia di Marx, Engels e Lenin aveva trovato la sua realizzazione; dove Stalin non era stato gettato nella spazzatura come avevano fatto i revisionisti un po’ in tutto il mondo; un posto dove organizzare campeggi estivi che somigliavano molto da vicino, senza nessuna ironia, ai pellegrinaggi verso i santuari delle Madonne salvatrici.

Tra questi gruppi ve ne era in particolare uno di cui faceva parte il disegnatore satirico Sergio Staino, che così lo definì nel 1979, dopo che per un decennio ne aveva fatto parte: “uno dei più settari, dogmatici e inutili gruppi marxisti leninisti: il PCD’I-Nuova Unità”.
Racconta ancora il papà di Bobo, sua creatura fumettistica più riuscita: “Ogni estate facevo l’accompagnatore a Tirana”. I suoi seguaci amavano Hoxha che li contraccambiava, riconoscendo i membri di questo gruppuscolo come i più affidabili interlocutori in Italia. Gli altri, da Berlinguer a tutti i leaders dei gruppi extraparlamentari, erano visti dagli uni e dall’altro come “traditori del proletariato”.
Il programma in Albania prevedeva visite rigidamente guidate alle fabbriche e studio approfondito del pensiero di Hoxha. Poi incontri con i dirigenti del partito comunista albanese. Scarso interesse, di contro, per la popolazione.

Oggi è facile domandarsi come mai non ci si accorgeva della miseria che imperversava nel paese. La risposta semplice è che non si voleva vedere, o non interessava vedere. L’ideologia acceca.
Nel 1978, mentre in Italia le Brigate Rosse uccidevano Moro, Staino scopre che forse il paradiso in terra non si trova nemmeno a Tirana. L’aver voluto portare nel suo paese un suo amico, fuggito dall’Albania nel 1948 in quanto il padre era considerato un criminale di guerra, scatena una serie di conseguenze che hanno come scopo finale quello del disincanto. E’ proprio da quel disincanto nasce il suo personaggio Bobo con tutta la banda di amici che lo circonda e che in questi anni hanno rappresentato uno specchio fedele dei tic, degli errori ma anche della generosità di parte della sinistra italiana, quella che è stata capace di riflettere su se stessa e di ridere delle proprie passate rigidità.

Ma l’Albania non era solo questo. Alcuni, non molti per la verità, vi vedevano anche un luogo vicino dove fare le vacanze a poco prezzo, e dove magari trovare donne compiacenti. Lo schema in realtà non era molto diverso da quello che spingeva molti nostri connazionali a recarsi in altri paesi del blocco comunista: calze di nailon, penne bic, qualche trucco e la vacanza era a posto. Magari per l’Albania si poteva immaginare qualche brivido in più, viste le scarse notizie che ci arrivavano e il regime durissimo che sapevamo vi vigesse. Ma certo è che mentre si sentiva parlare in continuo di conquiste fatte in discoteche di Varsavia e di Budapest; mentre anche alcuni film dipingevano queste squallide figure di italiani, spesso proprio romani, con pantaloni di pelle nera e catenina d’oro su una camicia sempre aperta, nessuno mai raccontava di esperienze del genere fatte a Tirana.

Tirana, appunto, era l’unica città albanese che si conosceva, magari insieme a Durazzo. Ma, solo per fare un esempio, Valona era assolutamente sconosciuta ai più. Eppure, studiando solo un poco si può facilmente scoprire che è una della città più antiche dell’Albania, quella in cui nel 1912 fu proclamata l’indipendenza del nuovo stato albanese di cui divenne anche la prima capitale.

Purtroppo però anche ora molto probabilmente se si chiede in giro di Valona la risposta cadrà inevitabilmente solo sugli scafisti che di là, nel 1991, imbarcarono i primi disperati che facevano rotta per la Puglia. Già, scafisti, altra parola che prima di allora non aveva quella valenza negativa che la connota ora. Al più si associava ai contrabbandieri di sigarette, ma niente di più grave e drammatico.

Con il 1991 quindi gli albanesi fanno irruzione nel nostro immaginario collettivo, ma la sensazione è che di loro e per lungo tempo, abbiamo continuato a sapere ancora molto poco; non molto di più di quello che loro sapevano di noi. E anche noi, come loro, li abbiamo visti per molti anni sotto la lente deformante della televisione: noi gli apparivamo ricchi, felici e generosi: eravamo noi il vero paradiso in terra, altro che quello di Hoxha per i marxisti duri e puri degli anni settanta. Loro di contro ci apparivano poveri e tendenzialmente tutti criminali: brutti sporchi e cattivi, proprio come Ettore Scola, in un film del 1976, aveva raffigurato gli abitanti delle periferie romane. Gli albanesi, in qualche modo, rappresentavano la periferia del mondo che improvvisamente si mostra in tutto il suo essere ai cittadini del centro.

Impareremo a conoscerli poco a poco, scoprendo con sorpresa crescente che tra loro, anche tra quanti si erano imbarcati sulle carrette del mare, vi erano bravissime persone, pronte a qualsiasi cosa, spesso mettendo a rischio la propria vita o quella dei loro famigliari, pur di darsi un futuro migliore e più dignitoso.

Dal mondo dello sport arriveranno le prime sorprese: calciatori albanesi verranno a giocare in Italia e in altre paesi d’Europa: Tare e Bogdani sono nomi ormai per noi famigliari.

Kledi è uno dei personaggi televisivi più conosciuti: balla, recita e viene spesso inseguito da fan in cerca di autografi.

I libri di Kadaré, nel corso degli anni novanta sono stati tutti ristampati; i giornali più diffusi ospitano suoi interventi. Ma non solo Kadaré: giovani scrittori e scrittrici vengono pubblicati da case editrici molto importanti e finalmente possiamo accostarci a un mondo che solo ora ci rendiamo conto di quanto ci fosse, pur nella sua vicinanza geografica, veramente estraneo. Conosceremo usi e tradizioni che magari, come primo impatto ci risulteranno ostici e difficili, ma che non potranno fare a meno di farci pensare e porre alcune domande. Soprattutto una: ma noi italiani, quando all’inizio del secolo scorso iniziammo a farci conoscere in tutto il mondo, proprio grazie a enormi flussi migratori, che effetto facevamo ai cittadini dei paesi che ci ospitavano? Brutti sporchi e cattivi anche noi, temo.

Massimo Canario, Bota Shqiptare

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