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Candidati a un paese europeo normale

Di Gjergji KAJANA

A voler essere metaforici possiamo affermare che, con l’ottenimento dello status di paese candidato nell’UE, adesso siamo nell’ombra della “montagna” Europa e finalmente possiamo vederla con i nostri occhi in attesa di poterla scalare. Nessun fraintendimento, per favore: geograficamente e storicamente l’Albania è sempre stata Europa e, con l’adesione (fra un decennio, come ha dichiarato Edi Rama 9 mesi fa?), ne condivideremo in pieno anche il destino politico dell’UE. Il nostro paese, però, piccolo e povero, è sempre stato ai margini della storia dei grandi sviluppi europei e li ha solo subiti, senza poterne avere voce. Ricordiamoci che abbiamo fatto parte per 500 anni di un impero arretrato come quello ottomano e che per lunghi decenni nella Guerra Fredda avevamo solo sporadici contatti con la maggior parte dei paesi del mondo.

Non siamo mai stati un paese normale se per normalità si intende capacità di gestire rapporti diplomatici ed economici complessi, esportare solo temporaneamente cervelli e forza lavoro, essere considerati membri dignitosi della comunità delle nazioni. Per lunghissimi anni, anche dopo la nascita del nostro stato (etnicamente smembrato), abbiamo avuto attriti perenni e tensioni pure con i nostri vicini, che ci hanno visto con un occhio severo di non riguardo.

L’Albania ha conosciuto fino al 1991 l’isolamento più rigido dalla civiltà occidentale di qualsiasi altro paese europeo e questo ha influito decisivamente sul fatto perché siamo solo il terz’ultimo paese balcanico che otteniamo lo status di candidato all’UE (ne rimangono senza solo Bosnia-Erzegovina e Kosovo, martoriati nei terribili anni ’90 da guerre etniche).

Lo stato di anormalità dovrebbe contare i tempi dopo l’ottenimento dello status. È un passo meno lungo di quello dell’inizio dei negoziati d’adesione con l’UE (“step” molto impegnativo e molto più importante) ma è un passo che si rende quel passo inevitabile nel nostro caso. Noi non siamo né la Turchia, né la Macedonia, paesi candidati bloccati sulla via dei negoziati (mai partiti). La prima non riesce più a dialogare serenamente con l’UE perché i rigurgiti autoritari dentro il paese sono forti e, malgrado abbia conosciuto nell’ultimo decennio un boom economico senza precedenti, non ha strutture politiche pienamente democratiche e non garantisce pienamente diritti come quello di raduno e quelli dei media. Nell’UE, inoltre, una gran parte dell’opinione pubblica e dei partiti politici in paesi come Germania e Francia giudicano il paese sul Bosforo come alieno alla comune storia europea per la sua dislocazione geografica e per il fatto che la maggioranza della popolazione sia musulmana. La Macedonia sembra un paese democraticamente più solido della Turchia ma subisce le conseguenze della divisione etnico-religiosa tra slavi e albanesi e soprattutto ha in un vicino come la Grecia la nemesi storica che vuole che Skopje cambi il nome della repubblica, richiesta non considerata dalla maggioranza slava. In modo che i negoziati di adesione di questi paesi comincino, l’UE si aspetta miglioramenti in questi ambiti, dove attualmente si ha uno stallo quasi completo.

È inevitabile, invece, che in un futuro che non vada oltre l’attuale legislatura albanese (che sembra blindata nei numeri dall’alleanza tra socialisti “maggiori” del PS e “minori” del LSI di Meta) si aprano dei negoziati d’adesione con l’Albania se il governo Rama si impegnerà severamente nel trionfo dello stato di diritto nel Paese delle Aquile. Se Skopje e Ankara necessitano di interventi chirurgici, a Tirana servono dei catalizzatori.

Un importante segnale catalizzante – in concomitanza con la vigilia dello status – è stato dato con l’operazione di polizia a Lazarat , conosciuto nei media come il villaggio capitale della droga in Europa. Un segnale nella giusta direzione, salutato più dall’Europa che dall’opposizione albanese o dal presidente della Repubblica di Tirana. Un segnale che certifica che il governo socialista guarderà sempre verso Bruxelles nella sua politica estera. L’impulso esterno di Bruxelles è decisivo per tutti i paesi balcanici che puntano all’UE e noi, ovviamente, non ne facciamo eccezione. Dobbiamo assecondare quell’impulso.

Il governo Rama si metta un obiettivo e decida di convincere Bruxelles ad aprire i negoziati di adesione con Tirana entro la prima metà del 2016, pareggiando almeno così i risultati già raggiunti dalla Serbia (che ottenne lo status nel 2012 ma iniziò i negoziati solo a gennaio di quest’anno, dopo lo storico accordo col Kosovo). Speri soprattutto nella sua stessa determinazione a far diminuire la corruzione, dare al paese un’amministrazione pubblica degna del nome “pubblico”, renda efficiente il sistema giudiziario e crei le possibilità alle imprese estere di investire nel paese, usando nel frattempo il denaro pubblico per rimediare alle carenze infrastrutturali e educative (ci ricordiamo ancora dello notizia- shock dell’Albania come il paese con il 57% dei 15-nni analfabeti funzionali). E se la Serbia punta ad aderire nella UE entro il 2020 (probabilmente non dovrebbe farcela prima del Montenegro), il governo albanese si dia come obiettivo l’adesione non oltre la legislatura 2017-2021, per non rimanere ancora più indietro ai vicini. Di tempo nell’avvicinamento albanese a Bruxelles si è perso per decenni e, criminalmente in termini politici, anche durante l’ultima legislatura prima delle scorse legislative, permettendo così il netto sorpasso di Serbia e Montenegro.

La storia albanese, un fascinoso racconto di sopravvivenza di un popolo orgoglioso, ci lascia una pesantissima eredità: abbiamo conosciuto sopra le nostre teste lunghi domini di imperatori stranieri e uomini forti nostrani ma pochissimi governi seri, autocrazie ma pochissima “governance”. Facendo i compiti a casa di Bruxelles ci costruiremo nella nostra abitazione nazionale i mobili politico-economici di un paese finalmente normale e proiettato verso un futuro da protagonista in Europa. Ora che vediamo la montagna è tempo di come progettare a scalarla.

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