di Adela KOLEA
Tirana, Albania, anni ’80.
“Anna, domani ti aspetto a casa per un caffè!” – disse Lucia, rivolgendosi alla sua amica, ed io ebbi l’impressione che quella voce, in quel determinato istante, stava rappresentando non solo la volontà da parte di entrambe le amiche di prendere un caffè insieme ma, più che altro, il loro intento di vivere tutta l’atmosfera confidenziale, solita tra due amiche di vecchia data, le quali, il momento della consumazione di un caffè, lo considerano sacro per dirsi delle cose che non spesso le capita di confessarsi a vicenda..
“Certo, verrò volentieri!” – rispose Anna, anche lei da parte sua, con l’entusiasmo che le si leggeva negli occhi in quel momento, tanto grande era stata la gioia nel rivedere questa sua vecchia amica.
“Vorresti venire con me? – mi chiese Anna – Vorresti venire domani a casa della mia amica? Infatti, non ci sei mai stata a casa sua, penso che ti piacerà. Ha anche un bel giardino, con tanti bei fiori!”.
Non aspettai altro e seguii dunque Anna, mia nonna, quando l’indomani andò a trovare la sua cara amica, un’altra italiana che come lei, viveva a Tirana.
Arrivammo a casa di Lucia dopo un certo percorso a piedi per le vie della nostra bella Tirana. Dovemmo andarci a piedi, perché lei abitava in una via in cui non passavano gli autobus e le automobili private, personali, non avevamo la fortuna di possederle, come tutti gli albanesi. Erano una cosa a noi “estranea”. La prima cosa che fece catturare la mia attenzione, furono proprio le rose del suo giardino: erano magnifiche e mia nonna, evidentemente non aveva avuto torto nell’avermi descritto così quel giardino e nell’avermi invogliata ad accompagnarla.
Mi piacque l’ambiente, anche l’arredamento della casa aveva qualcosa di speciale, di diverso dal solito, mi piacque il modo affettuoso in cui mi salutò l’amica di mia nonna, naturalmente in italiano: “Ciao bella!”, – mi coinvolse la sua cordialità ma, non solo: il fatto di parlare io stessa in italiano con lei – io, ai tempi una bambina – in quanto per l’appunto, la mia nonna e Lucia, la sua amica, erano due italiane d’Albania! Gli occhi della signora Lucia, mi avevano fatto una certa impressione: con tutta l’allegria e l’ospitalità che ci voleva dimostrare a tutti i costi, quei occhi portavano una luce strana, sofferente.
Forse mi sbagliavo, anzi, desideravo proprio sbagliarmi in questa impressione che percepivo.
Era per questo che, nonostante tutte le altre amicizie, quelle con albanesi, che avevano instaurato nell’arco degli anni, fossero delle ottime e validissime amicizie, tutte le volte che quelle poche donne italiane di Tirana si incontravano tra di loro, anche solamente per il tempo di prendersi un caffè, si notava il loro aspetto da emigranti!
Sì, da emigranti, anche se oramai, questa definizione non avrebbe dovuto essere più applicata nei loro confronti, essendo che da una vita vivevano in Albania, da una vita avevano lasciato la loro amata Italia, avevano sposato degli uomini albanesi, avevano avuto dei figli e messo su famiglia in Albania. Ad ogni modo, il momento dei loro incontri, risultava – almeno nei miei occhi, negli occhi di una bambina – magico, pieno di nostalgia, di affetto di una per l’altra, un momento di confidenza tale, in cui avevano modo di parlare la loro lingua, e non solo: di ricordare a vicenda la loro terra l’Italia, i loro cari, le loro rispettive città italiane di provenienza, perché no, la loro cucina e loro usanze, la loro musica e a tale proposito, a canticchiare insieme sotto voce qualche vecchio brano musicale italiano, dell’artista da loro preferito ai tempi.
“Mi vuoi aiutare anche tu a preparare il caffè?” – mi chiese ad un tratto la signora Lucia, con l’intento da parte sua di fare tutto il possibile di coinvolgermi in qualcosa, in quanto lì, altri bambini, miei coetanei, non c’erano e lei temeva che io mi stessi annoiando. Ma, al contrario, io mi stavo trovando molto a mio agio.
“Certo signora Lucia!” – le risposi con una voce squillante io, entusiasta di rendermi partecipe al “rituale del caffè”. Questo, in quanto, quelle due donne italiane in Albania, non consumavano il loro caffè all’italiana, l’espresso – non c’era il caffè stesso adeguato per questo e non c’erano neanche le caffettiere adatte – ma, bevevano il caffè alla turca, come tutti gli albanesi, come in tutti i Balcani in generale!
Per cui, io potevo essere loro di “aiuto” nella macinazione del caffè: macinato fresco attraverso il solito mulino da caffè, e in questo modo, la degustazione del caffè appena macinato, pronto per essere preparato nell’altro apposito recipiente, la cosiddetta “xhezve”, risultava un vero piacere!
In poche parole, loro si gustavano il loro caffè e a me, la signora Lucia offrì una bevanda fresca. Indovinate un po’ come era stata preparata? La signora Lucia, così come mia nonna, pur avendo portato a Tirana, a loro volta, ad amici e familiari, delle loro ricette di cucina italiana – per quel poco che il mercato albanese metteva a disposizione ed offriva a riguardo degli ingredienti necessari per tali ricette, – avevano imparato delle ricette culinarie albanesi e balcaniche.
Dunque, la bevanda fresca che la signora Lucia mi offrì, consisteva in uno sciroppo ottenuto dai petali delle rose, di quelle belle rose fresche ed aromatiche del suo giardino, il cosiddetto “shirup trëndafili”!
Sempre a proposito di cucina, mia nonna le disse: “ Ma sai Lucia, cosa mi aveva messo da parte oggi la fruttivendola del mio quartiere? Non ci crederai! Tre o quattro carciofi!”
“Ma davvero?” – rimase stupefatta Lucia.
I carciofi, ai tempi, erano una specie di ortaggio non conosciuto dagli albanesi. Infatti, un giorno mia nonna, mentre si trovava al piccolo negozietto di frutta e verdura del quartiere, parlando con la fruttivendola della frutta e verdura che si trovava in Italia e confrontando – generalmente, in assortimenti, all’incirca, questo era uguale in entrambi i paesi, cambiava per l’Albania soltanto la situazione della carestia in cui viveva il paese, e questo non era poco – facendo anche attenzione su come parlare ed esprimersi, perché la nonna aveva imparato a memoria le regole ferree che la censura nell’Albania sotto dittatura imponeva, era capitato di parlare di un ortaggio come i carciofi. Così sconosciuto per gli albanesi quest’ortaggio, ma stranamente la fruttivendola lo conosceva ed aveva subito risposto:” Ah, ma lei intende “angjinarja – cynar”!..
“Sì, esatto”, aveva risposto la nonna, proprio i “angjinarja”. La fruttivendola si era promessa di portargliene alcuni ed io non immaginavo dove li trovasse in Albania, anche se la nonna mi diceva che venivano coltivati nell’intero bacino del Mediterraneo e per essere piantato, a quel ortaggio bastava un terreno appena fertile, niente di più. Non sapevo in quale zona del nostro paese venivano coltivati, oppure chi glieli faceva procurare.
“A me li portano ogni tanto, ma non mi piace quel sapore amarognolo, quelle spine che mi fanno senso e non so neanche cucinarli a dovere! – aveva detto alla nonna la fruttivendola, con un’espressione disgustata. Dunque, quando me li portano, io li conserverò per lei!”
E così faceva! La nonna poi li cucinava in vari modi ed era contenta di preparare una delle specialità del suo paese.
Il loro caffè quel giorno era stato un po’ più lungo del solito ed io, a quel punto, nonostante la bellezza del giardino, la compagnia del gatto grigio con gli occhi verdi – verdi come i rami e le foglie di quelle fresche rose – che mi seguiva ovunque io girassi, avanti e dietro quella casa, iniziai ad annoiarmi un po’. A quel punto decisi di entrare in casa a chiedere alla signora Lucia se avesse qualche rivista o giornalino da farmi vedere.
Ma, senza volere, assistetti ad un pezzo del loro discorso, nonostante quest’ultimo venisse effettuato sotto voce da entrambe loro. Sentii mia nonna dire alla sua amica: “Oh, mia cara, quanto mi dispiace, quando finirà questo tormento per noi?!
La voglia di chiedere un giornalino alla signora Lucia, mi passò immediatamente perché, nonostante la tenera età, capii che quelle persone, portavano dentro un’enorme peso. Anche se a noi nipoti, cercavano in tutti i modi di non far capire ma, le loro sofferenze erano difficili da essere camuffate e nascoste del tutto.
Un po’ più avanti, in famiglia, seppi che il dolore che tormentava l’amica italiana di mia nonna, era collegato ad un fatto tremendo: a seguito delle persecuzioni, manifestate ed applicate in differenti modi sugli italiani d’Albania – se non su tutti, ma almeno su una parte di loro – il marito della signora Lucia si trovava in carcere e stava scontando una lunghissima pena.
Come se tutto ciò non bastasse, la stessa sorte crudele, era stata riservata anche a suo figlio!
Questo mi avrebbe decifrato, sia “il perché” della malinconia che avevo notato negli occhi dell’amica di mia nonna, di quella affabile donna, la signora Lucia, quel giorno mentre, con amore, ci accoglieva a casa sua, che quel pezzo di discorso che, senza volere, avevo sentito arrivare dalla cucina della signora Lucia, mentre con mia nonna, prendevano il loro caffè alla turca, quel giorno a Tirana.