Con il suo romanzo, tra la farsa e la tragedia, Aliçka racconta agli italiani la dittatura e i vari strati della prigionia albanese
Il romanzo Il sogno italiano di Ylljet Aliçka sbarca a Roma, molto piu felicemente dei personaggi del suo libro conosciuto in Albania con il titolo Valsi i Lumturise, edito da Toena. Il titolo albanese è stato preso in prestito dalla canzone “Valzer per un amore” del cantautore italiano Fabrizio De Andrè, personaggio a cui lo scrittore è stato da sempre affezionato prima come fan, poi come amico.
Pubblicato in Italia dalla casa editrice Rubbettino, con la traduzione di Giovanna Nanci, il libro è stato presentato venerdì pomeriggio nella sala della Chiesa Valdese a Piazza Cavour, un posto molto suggestivo per la sua storia e per essere nel cuore della Capitale. L’incontro è stato il frutto della collaborazione tra l’Associazione “Occhio blu – Anna Cenerini Bova”, rappresentata dall’Ambasciatore Mario Bova, che ha ricoperto il ruolo più alto della rappresentanza dello stato italiano in Albania durante il periodo 1999-2003, il mensile di religione, politica e società “Confronti” e dalla casa editrice Rubbettino che sta pubblicando una serie di autori albanesi e in questo momento sta lavorando al prossimo libro di Visar Zhiti. Presente all’incontro anche l’autore albanese, Ylljet Aliçka, che ha iniziato a scrivere in età adulta guadagnando velocemente molti punti nella gerarchia della letteratura albanese del post-dittatura.
Aliçka ha parlato della nascita del libro che prende vita partendo da un trafiletto letto sul “Il Corriere della Sera” tanti anni fa, della sua idea del pianto, di come gestire la memoria.
“La famosa storia di Popa è diventata una storia sociale” dichiara lo scrittore. “Il mio libro parla di personaggi che si aspettano la felicità. Io non sono sociologo ma mi interessa molto la sociologia” dice lui, spiegando la sua idea attraverso uno degli episodi più tragicomici del libro: “Il modo in cui la gente piange la morte del dittatore è molto complesso, perché giocano ruoli importanti la paura e la finzione”, spiega Aliçka. C’è da dire che, nonostante i personaggi siano realmente esistiti, il romanzo è frutto dell’immaginazione dell’autore prendendo solo spunti dalla storia vera.
Durante l’incontro, per il pubblico, sono stati letti piccoli brani cruciali del libro e hanno parlato diverse personalità della cultura italiana e di quella albanese, presenti in Italia.
L’antropologo e professore dell’Università di Messina Mauro Geraci, bravo conoscitore della letteratura contemporanea albanese, considera la farsa del funerale del dittatore Hoxha come un “teatro delle lacrime”.
“L’autore ha una capacità non comune di adottare registri narrativi diversi sulle differenti situazioni che descrive”, interviene l’Ambasciatore Bova. “Per raccontare il regime ricorre alla farsa, un po’ alla commedia all’italiana come diceva Dario Fo, e ricorre invece alla tragedia per quello che dovrebbe essere il momento felice della storia, ovvero l’arrivo e la vita in Italia dei sei fratelli Tota” In Italia loro pensavano di trovare la libertà, la dignità e forse anche l’amore, di avere una ricompensa per quei 5 anni passati nel seminterrato della ambasciata italiana a Tirana”. In realtà hanno trovato un calvario burocratico che li ha sconfitti nel libro così come nella vita.
All’incontro ha dato il suo contributo anche il sociologo Rando Devole che punta a farci vedere, attraverso la lettura, grandi temi come la libertà. “In questo libro ci sono i muri, la prigione in diverse fasi e grandezze. Il libro stesso si costruisce come una grande prigione a strati, come le matriosche russe. I protagonisti scappano da una prigione per cadere in altre prigioni”. Per il sociologo, nella storia, si nota chiaramente lo spaesamento degli protagonisti: sono senza punti di riferimento, senza paese. “È più facile sopravvivere a muri, guardie e serrature ma è molto più difficile gestire la libertà”, dice Devole che sottolinea che per un lettore italiano certe sfumature purtroppo passeranno inosservate, cosa che non succede al lettore albanese, sopratutto a chi ha vissuto sulla pelle quell’epoca difficile.
“Il sogno Italiano” è stato considerato dal giornalista e scrittore Oliviero La Stella come un potente romanzo kafkiano perché la burocrazia descritta nel libro è simile a quella di Kafka nel suo romanzo inconcluso “Il Castello”, ma l’Ambasciatore Albanese presso la Santa Sede, lo scrittore e poeta Visar Zhiti ha obiettato dicendo che “il pessimismo di Kafka è negativo, quello di Aliçka è positivo”. Zhiti ha concluso dicendo che “Ylljet ha ammesso di non aver mai conosciuto i veri personaggi della storia ma è come se li avesse conosciuti così come tutti noi li abbiamo conosciuti, perché noi albanesi tutti siamo un po’ come il fratello di Popa”.
Zhiti ha dato il suo contributo anche sulla conoscenza vera della famiglia protagonista del libro. “Io li ho conosciuti quando venivano all’Ambasciata Albanese qui a Roma per lamentarsi della burocrazia italiana. Loro venivano nell’ambasciata del paese che avevano rinnegato per lamentarsi di quello che avevano scelto”. Un grande paradosso questo per il poeta che dice che “la patria non è un pezzo di terra, la patria è dentro ciascuno di noi. La patria non si trova o si perde, perché basta guardarsi dentro per trovarla. I personaggi del libro in realtà erano scappati dai loro stessi”.
“Hanno scelto di venire in italia per una vita migliore e rivendicherano di essere gli eroi albanesi del 1985 e sentendosi tali, lasciano esterrefati il regime per il gesto loro clamoroso, mobilizzando il governo italiano al massimo, incluso il capo della ONU e ritengono di essere i grandi precursori del grande essodo della migrazione dall Albania all’Italia”, spiega Bova parlando del libro “Il sogno italiano”.
E in realto lo sono stati. L’arrivo del mercantile Vlora sulle rive italiane con 20 mila albanesi a bordo avverrà 6 anni dopo. “Serve però riconoscere il ruolo della tv italiana che a quel epoca aveva la potenza di un magnete che attirava gli albanesi verso l’Italia”, dice L’Ambasciatore considerando il richiamo delle “sirene mediatiche italiane” come “il fascino del Mulino Bianco”.
In realta non succederà per questa ragione che una famiglia albanese, appena dopo la morte del dittatore peggiore dell’Europa comunista chiedera con furbizia l’asilo politico all’Ambasciata Italiana, mettendo in difficolta non solo lo Stato Albanese e quello Italiano, ma facendo in modo che l’intero mondo guardasse verso la chiusura dell’Albania a quei tempi. La storia è un calvario che è durato 5 lunghissimi anni nel seminterrato della rappresentanza italiana a Tirana, sotto l stretta sorveglianza di circa 600 militari che hanno tenuto l’Ambasciata Italiana sotto tiro. “Ma come dicono i politici italiani di quell’epoca, loro non eranno Solženicyn e apparte truccare il contattore della luce e acqua per pagare poco, sentire le radio italiane e covare il rancore verso lo stato albanese, non facevano niente di sovversivo”. L’intera famiglia ha aderito all’idea del fratello minore Simon di fare questa pazzia e hanno varcato il cancello dell’ambasciata. La famiglia Tota (che nella realtà si chiamava Popa) era una famiglia andata in disgrazia per via del padre farmacista che durante l’occupazione si era unito all’invasione senza cambiare idea e passare con la resistenza dopo. Per questa ragione ai figli si era proibito di svolgere dei studi universitari e percio eranno obbligati a fare lavori modesti. Ma loro questa situazione vissuta solo perche ereditata da un azione del padre lo hanno vissuta male anche nelle relazioni sociali, essendosi visti come appestati. Così, con la morte del dittatore nel 1985, loro volevano come tutti partecipare al lutto e al funerale, ma non gli è stato permesso perché proprio una famiglia di declassati.
“Ci sono dei spioni che prendono nota delle lacrime, singhiozzi, sofferenza per capire quanto le persone eranno fedeli al sistema e quanto fingevano. La scene delle persone che si buttano per terra, che si strappano i cappelli che si battono i pugni in testa, dobbiamo dire, che sono abbastanza divertenti durante la lettura”, conclude il suo intervento l’Ambasciatore Bova, consigliando a tutti la lettura del romanzo.
Teuta Meçi