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‘La Patria Adriatica’ di Giorgio Bocca

Vite më parë, në mars 2001, në një botim të posaçëm mbi dhjetëvjetorin e mbërritjes së shqiptarëve në Itali, ‘Bota shqiptare’ pat kontaktuar gazetarin italian Giorgio Bocca për ta pyetur nëse fjalët dashamirëse e mikpritëse mbi shqiptarët e artikullit të vet “Atdheu Adriatik” shkruar në mars 1991 në La Repubblica, do t’i shkruante sërish në ato ditë të 2001-shit kur sulmi mediatik ndaj shqiptarëve në Itali ishte në kulmin e vet. “L’integrazione degli albanesi sarebbe incomparabilmente più facile proprio perché ci sono affini, hanno la nostra stessa storia, vogliono quel che noi vogliamo, desiderano quel che noi desideriamo, grosso modo una società laica, tollerante, di libere imprese e di libera distribuzione.” shkruante mes të tjerash plot dashamirësi mbi shqiptarët Bocca më 1991. E dhjetë vjet më pas, më 2001, do t’i pergjigjej pyetjes sonë se ndërkohë ai integrim kishte ndodhur e po ndodhte. E se ato fjalë dashamirëse do t’i rishkruante madje më fort. Gazetari Giorgio Bocca u nda nga jeta në dhjetor të vitit 2011, na pëlqen ta kujtojmë me këtë shkrim që botoi në Repubblica më 11 mars 1991

La Patria Adriatica

A vederli stipati, schiacciati sulle carrette del mare, “boat people” dell’Amarissimo, donne, bambini, quanti bambini, giovani, quanti giovani, pazzi di gioia per essere arrivati in quel buco grigio che è il porto di Otranto, in quel gran vuoto che è il porto di Brindisi, in questa Italia che per noi è povera; a vederli pronto a tutto per fuggire da quel lager tribale più che stalinista che è stata ed è ancora l’Albania di Enver Hoxha ci è venuto da gridare: ma prendiamoli, sfamiamoli, curiamoli. Un grido cui non poteva non seguire una riflessione sulle preoccupazioni e sul distinguo verso gli altri immigrati. Personalmente mi sono chiesto: ma questi perché li accoglieresti senza star lì a discutere di leggi e di regolamenti e invece quelli che arrivano dall’Africa o dal Terzo mondo, con altro colore della pelle, altre culture, altre religioni li vorresti contati e controllati?

Vediamo di rispondere. Forse la prima ragione viene dalla storia. Una patria mediterranea c’era durante l’impero romano, ma poi per più di mille anni c’è stato antagonismo frontale fra Islam e cristianità, fra fedeli e infedeli, fra i bianchi e i “mori” che hanno lasciato i loro nomi nelle terre della conquista. Cose che fanno parte delle rispettive memorie storiche, che sono emerse, quasi intatte, con la recente guerra del Golfo con voglie di rivincita e conferme di potere che per essere radicate in secoli lontani non sono per questo meno vive.

E invece una patria adriatica c’è, la gente che vive sulla nostra sponda, dal Friuli alle Puglie e quella che sta sull’altra, dall’Istria alla Dalmazia, al Montenegro, all’Albania, alla Grecia non ha mai smesso, neppure durante le guerre, di sentirsi figlia dello stesso mare.

La “Serenissima” non è una memoria slavata di secoli lontani, è una patria marinara durata fino alla fine del Settecento, in qualche modo continuata dall’impero austroungarico; una patria in cui ci si è sempre capiti con una sorta di esperanto avente per base il Veneto con cui anche oggi ci si spiega, si comunica a Pola come a Spalato, a Cettigne a Siracusa, a Durazzo.

La seconda ragione, corollario della prima, è la nostra affinità con i popoli adriatici. Si parla molto – quasi è diventata una moda – del Nord ricco che sta a fronte del Sud povero del mondo. Che contrasto, pressione, conflitti ci siano e ci saranno è più che evidente. Ma quando si dice, con disinvoltura terzomondista, che il Nord ricco deve farsi carico del Sud povero si fanno chiacchiere velleitarie. Il Nord ricco può accogliere e integrare gli affini e aiutare gli altri a entrare nella modernità, non farsi carico di tutti i cittadini del mondo e non solo per il loro numero sterminato e per i loro bisogni senza fondo ma perché, senza affinità, senza accettazione e conoscenza della cultura che ha fatto ricco il mondo avanzato, sarebbe denaro e fatiche buttati al vento.

Una società multirazziale è possibile, esiste già negli Stati Uniti, in Brasile, a Cuba, ma una società multiculturale è un’utopia. Il capitalismo è tante cose diverse, può assumere forme e metodi vari ma le regole fondamentali del gioco, la libera circolazione delle idee e dei capitali, la ricerca e la innovazione, il profitto regolato dalle riforme ci sono, e senza di esse non c’è modernità o benessere. E allora vogliamo essere sinceri? L’integrazione degli albanesi sarebbe incomparabilmente più facile proprio perché ci sono affini, hanno la nostra stessa storia, vogliono quel che noi vogliamo, desiderano quel che noi desideriamo, grosso modo una società laica, tollerante, di libere imprese e di libera distribuzione.

Perché questa è la precisa ragione politica e, magari, ideologica per cui essi sono tutti perseguitati politici, questa è la ragione per cui l’Italia democratica non può rifiutarsi di aiutarli: gli albanesi non arrivano da una estraneità qualsiasi, da un diverso qualsiasi. Arrivano da uno Stato che si è proposto per oltre quattro decenni come esempio di assoluta ortodossia comunista, di fedeltà al leninismo stalinismo, che ha predicato il suo disprezzo per le democrazie capitaliste, per le socialdemocrazie riformatrici. E adesso che a rischio della vita queste migliaia di albanesi testimoniano sulla rovinosa bancarotta del comunismo proprio noi, gli antemurali della democrazia, la marca di confine del mondo libero, dovremmo respingerli?

Il mondialismo globale è una impostura. Non ci si può occupare davvero seriamente di tutti i mali del pianeta, di tutti i suoi problemi; e serve poco riempirsi la bocca della parola Onu oggidì parola quasi magica perché l’Onu poi esiste, funziona in quanto esistono quelle otto o dieci nazioni che hanno il denaro per i suoi interventi e la forza per farne rispettare le decisioni. A queste nazioni, a questo Nord ricco, a questo mondo avanzato si può chiedere di aiutare gli affini o i disponibili all’affinità, non di farsi sommergere da una alluvione di culture arcaiche, già sconfitte dalla storia.

Poi ci sono le ragioni minori. Una è che in Albania ci siamo andati con l’imperialismo straccione del fascismo e ora ci viene il dubbio e il rimorso che se li avessimo lasciati in pace forse si sarebbero risparmiati il lager staliniano. La seconda è che dopo lo spettacolo indecoroso offerto, in occasione della guerra del Golfo, dal mammismo italico con le accoglienze trionfali di chi voleva la pace ai pochissimi che hanno fatto la guerra (non sai si pacifisti vestiti da aviatori o aviatori che annusata l’aria di casa si professano pacifisti), insomma in queste sentimentali buffonate di casa nostra, forse sarebbe il caso di cogliere una occasione per dimostrarsi sul serio uomini di pace e di solidarietà, per smentire chi, non senza motivi, dice che il nostro umanesimo filantropico è pura chiacchiera televisiva.

La Repubblica, 11 Marzo 1991

Pubblicazione su Bota Shqiptare n.35, marzo 2001, per gentile concessione di Giorgio Bocca.

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