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Oltre il mare, là dove sorge il sole

Riflessioni sul romanzo di Aldo Renato Terrusi, “Ritorno al Paese delle Aquile”
Di Eugjen Merlika

La traduzione albanese di “Ritorno al Paese delle Aquile”, “Brenga ime shqiptare”, edito da ISKK (Instituti i Studimeve te Krimeve dhe pasojave te Komunizmit) verrà presentato a Roma, in piazza del Campidoglio,55, Sala piccola Protomoteca – Lunedì 11 novembre ore 17.00
Ci sono periodi nella storia dell’Umanità nei quali il destino degli individui viene intrecciato in maniera indissolubile con quello delle Comunità, dei Popoli, delle Nazioni. Sono periodi nei quali gli eventi superano di gran lunga la normalità, travolgendo gli individui che diventano semplici numeri e che sempre di più somigliano alle foglie gialle cadute dagli alberi, portate qua e là, senza tregua, dal vento.

Uno di questi periodi si ritrova nel romanzo dello scrittore Aldo Renato Terrusi. “Ritorno al Paese delle Aquile” non si limita al racconto del viaggio di una persona in cerca di un affetto paterno, perduto quasi mezzo secolo prima. Intorno a questa narrazione l’autore coglie l’occasione di raccontare la storia di una famiglia che, in un certo senso, diventa l’emblema di una società ed, allargando il discorso, di una nazione in un certo periodo della sua storia.

Il periodo esaminato è quello del ventesimo secolo, con particolare riferimento alla sua prima metà. È forse il più tormentato di tutta la storia europea, con due guerre mondiali e decine di milioni di morti, configurazioni di stati dissolti e rifatti, sistemi dittatoriali che raggiungono apici di violenza e criminalità attraverso stragi massive, campi di sterminio e gulag eterni, libertà individuali soppresse, vite umane travolte impietosamente. Palcoscenico degli eventi è la penisola balcanica, “la polveriera d’Europa”, ed in particolare l’Albania. In questo contesto si inserisce la storia della famiglia Poselli, che somiglia e quella di tante famiglie italiane che, nell’Italia di fine ‘800 ed inizio ‘900, emigrarono in cerca di fortuna all’estero, in Paesi sviluppati e meno, ma ovunque ripagati con sistemazioni invidiabili, comprensione e rispetto grazie all’ingegno, alla volontà ed alla serietà nel lavoro. 

Dopo varie esperienze in Egitto, Turchia e Grecia i Poselli si stabiliscono in Albania e questo Paese, che darà i natali all’Autore, diventa d’ora in poi il centro, nel bene e nel male, dei loro destini. Qui sboccia l’amore tra Aurelia e Giuseppe Terrusi, qui si concretizza il sogno della famiglia. In questo Paese zio Giacomo diventa noto, grazie alla sua partecipazione come portiere nella squadra nazionale di calcio.

L’autore nel suo racconto ci descrive tre Albanie, che sono lo stesso Paese, ma in tre fasi diverse della sua storia. La prima è quella di Re Zog e della seconda guerra mondiale, la seconda è quella del regime comunista e la terza è quella odierna post comunista. La prima è l’Albania normale, un Paese arretrato, che da pochi decenni ha potuto avere, per la prima volta nella sua storia, uno Stato unitario, anche se mutilato e dimezzato nei suoi territori da decisioni ingiuste delle grandi potenze. Quest’Albania, a prescindere dai suoi mille problemi, è un Paese normale, dove chiunque, nei limiti, può costruirsi una vita, può fare dei progetti, può realizzare dei sogni, può cercare la fortuna all’estero, può sperare in un futuro migliore. In questa Albania la vita degli italiani scorre normalmente, anche se tra difficoltà comprensibili per un Paese arretrato. In questo contesto l’Autore descrive la storia di Enver Hoxha e di Aurelia Poselli, una storia di relazioni umane un po’ complicate. Enver si innamorò della bella ragazza italiana, le fece una corte spietata, le regalò un libro con una dedica che, dimostra in pieno il carattere bugiardo di quest’ultimo. Si firma come “Studente in medicina”. È una falsità, come sono falsi i dati riportati relativi agli studi di Enver Hoxha. Il futuro dittatore non è stato in grado di superare nemmeno un esame all’Università di Montpellier, dove lo stato albanese, grazie a raccomandazioni altolocate, aveva consegnato a lui una borsa di studio, revocata poi dal Ministro Ivanaj per quel motivo.

Aurelia rifiuta la proposta d’amore di questo ragazzo, assieme alle sue teorie sulla rivoluzione comunista, e qui inizia la sua disgrazia che prende corpo nella seconda Albania, quella che vede la nascita in quel famigerato 29 novembre 1944. Questo giorno, detto di Liberazione, altro non fu che quello della occupazione del Paese da parte di un sistema che generò soltanto morte, miseria, arretratezza, mancanza di libertà, terrore per quasi mezzo secolo e isolamento totale dal mondo occidentale. Questo sistema ed il suo architetto Enver Hoxha furono responsabili di immense tragedie umane.

Le cifre della repressione comunista in Albania sono raccapriccianti : esecuzione di 5577 uomini e di 450 donne, condanne ai lavori forzati per 26.768 uomini e 7367 donne, morti nelle carceri 1065 persone, perdita di attitudini mentali per 408 persone, deceduti nei campi di concentramento 7022 persone, anni complessivi di galera per reati di opinione 914.000, anni di confino in tutto 256.146. Queste cifre si riferiscono a una popolazione di un milione di abitanti.

In queste macabri cifre rientra anche la fine prematura e tragica del marito di Aurelia. Con questa Albania hanno dovuto fare i conti anche gli italiani rimasti in quella terra, dopo il famigerato accordo Hoxha – Palermo del 1945. Il sottoscritto ha pagato un tributo molto salato a questo stato di cose. Aveva una madre italiana, laureata in Lettere con 110 e lode nella R. Università di Napoli,  che il regime dei pastori comunisti ha obbligato a trasportare legna sulle spalle ogni giorno nelle montagne di Tepelena, o a zappare la terra per tutto il resto della sua vita lavorativa. Io e l’Autore del romanzo siamo coetanei, avendo solo pochi mesi di differenza. Lui, da un lato, è stato più fortunato perché è cresciuto in un Paese libero. Dall’altro lato sono stato io più fortunato perché ho avuto la possibilità di vivere con mio padre, dopo che lui ha scontato la condanna a 15 anni di carcere a Burrel.

Leggendo questo libro mi sono tornate in mente le fisionomie di tante persone citate in vari episodi, persone conosciute in una vita passata interamente nei campi di concentramento e nelle prigioni del comunismo albanese. Ho conosciuto il colonnello Mario Verde ed il capitano Luigi Tagliani, che sono stati rimpatriati nel 1956, partendo dal settore Plug di Lushnja, dove abitavamo anche noi, e dove abitava anche Padre Gardini, un esempio luminoso di servitore della Chiesa cattolica. Sono stato  a Spaç assieme a Petrit Velaj, nel 1980, durante la seconda prigionia di quest’ultimo. Era un gentiluomo il compagno di cella di Giuseppe Terrusi e, amichevolmente, dico a suo figlio che l’impressione avuta dopo il colloquio con lui credo sia sbagliata.

Ringrazio di cuore Aldo Terrusi che, tramite questo libro, contribuisce a far conoscere alla società italiana l’amara verità del popolo albanese, il suo lungo e doloroso martirio.

La terza Albania è quella dove si muovono l’Autore e suo zio, l’eroe della balcaniata, al ritorno nel Paese delle Aquile. È il Paese che, ufficialmente, ha sostituito il comunismo con la democrazia. Purtroppo è una democrazia finta, figlia di un anticomunismo finto, che non vuole seriamente riconoscere e risarcire i danni della dittatura verso le sue vittime, come dovrebbe risarcire e chiedere scusa anche all’Autore di questo libro per la condanna ingiusta ed ingiustificata di suo padre.

Aldo Terrusi ha il grande merito di avere immortalato, tramite il suo romanzo, l’esperienza dolorosa, persino tragica, vissuta in prima persona dai suoi genitori. Il trauma umano di un bambino privato dell’affetto e della presenza di suo padre nella sua vita, a causa di un regime crudele e disumano che condanna senza nessun motivo valido, è un’ingiustizia che normalmente dovrebbe gridare vendetta o voglia di giustizia. Grazie alla generosità ed alla moderazione dell’Autore cade in un secondo piano. Sembra che lo scrittore voglia risparmiare al lettore il peso della tragedia che ha segnato la sua vita, ed ha fatto diventare obbligatorio un traguardo, tanto umano quanto giusto e morale : il ritrovamento dei resti di suo padre, il ritorno di essi nella sua terra natia, dentro un loculo, con una lapide decente, una sua bella foto ben in vista, un vaso di fiori ed una candela sempre accesa ; un posto dove andare a rinvangare ricordi strazianti, quelli del babbo dietro le sbarre e del bambino nelle braccia della madre, che chiede tra le lacrime l’uscita da quell’inferno; un posto dove andare a pregare per non dimenticare, soprattutto per non dimenticare.

Forse l’Autore ha fatto sua la lezione di un grande Pontefice, Giovanni Paolo II, che, nello stesso anno, ha visitato il Paese delle Aquile definendolo “Terra flagellata dalle persecuzioni”, ed invocando per esso l’aiuto e l’attenzione del mondo con la famosa espressione “Europa non dimentica”. Il martirio di quel popolo, particolarmente della parte cattolica, e stato senza confronti nel’Europa comunista.

Con il suo silenzio, la sua composta rassegnazione, il suo dolore profondo e misurato l’Autore rende omaggio alla realtà raccapricciante di un popolo amico e generoso, al quale si sente legato non soltanto per i suoi Natali ma, soprattutto, per la sua tragedia. L’Autore non è soltanto il missionario che attende una vita per ricongiungersi ai resti di suo padre. Lui è anche un osservatore attento di una realtà, fino a poco tempo fa, avvolta nel mistero, impenetrabile. Di questa realtà lo colpiscono diverse cose : i bunker, 700.000, che hanno occupato tutto il territorio di questo Paese, l’esempio più lampante ed eloquente di un’assurdità politica e di una idiozia umana senza limiti, che contribuì in modo determinante ad impoverire, ai limiti della sopravvivenza, un intero popolo; le antenne dei televisori sui tetti e sui balconi di fatiscenti palazzi, un altro esempio, questa volta positivo, di una resistenza passiva, gandiana, senza volto, dello stesso popolo, ad una dittatura che si sforzava con tutti i mezzi a sua disposizione di indottrinarlo ogni giorno con i dogmi del peggior comunismo. Lo stato lo obbligava, attraverso le leggi del terrore, a vivere nell’ignoranza, a non avere nessun contatto, di nessun tipo, con il mondo circostante, particolarmente con l’Italia che, per la maggioranza degli albanesi, era “la terra promessa”, sinonimo di libertà, di cultura, di benessere, di generosità. Quelle antenne erano il mezzo che permetteva di conoscere quel mondo, anche se soltanto tramite la televisione, che dal canto suo non contribuiva molto all’informazione imparziale, creando un’opinione più virtuale che reale della stessa realtà.

La povertà nelle varie sue manifestazioni colpisce l’Autore e lo fa riflettere sulle cause e sui motivi, che hanno tutti la stessa genesi, il sistema comunista e la sua guida suprema, Enver Hoxha. Quest’ultimo è l’emblema di quel sistema, il dittatore, l’uomo onnipotente che fa e disfà tutto secondo i suoi capricci, la sua volontà perversa, criminale. Un mostro che mira ad annientare tutto quello che di buono, di generoso, di nobile aveva il carattere e l’indole degli albanesi. Si rende conto Aurelia, il personaggio solare del romanzo, quando “sperava di poter incontrare Enver in persona e chiedergli la grazia per il marito in nome dell’antica amicizia, ma lui si giustificò dicendo che ragioni di stato gli impedivano di essere magnanimo : se avesse ceduto, la sua gerarchia ne avrebbe risentito. Aurelia fu invece chiamata in seguito più volte, da uno dei tirapiedi di Enver che le fece solo proposte irripetibili in cambio di un probabile rilascio del marito.”

Questo argomento merita un approfondimento perché illustra uno dei lati peggiori del carattere di Enver Hoxha, una natura vendicativa ai limiti, particolarmente con le donne che avevano rifiutato le sue avances. È molto probabile che l’istinto bestiale di rivalsa verso Aurelia per “ l’offesa” patita anni prima, abbia deciso anche la sorte di Giuseppe Terrusi che, in un altro contesto sarebbe stato liberato e forse mai arrestato.

La stessa sorte toccò ai fratelli di Musine Kokkalari, una delle ragazze più note e colte del suo tempo, scrittrice originaria di Argirocastro che aveva rifiutato le proposte del futuro capo dell’Albania. I due fratelli pagarono con la vita e la stessa Musine con 15 anni di carcere. In prima persona pagò la presa in giro del futuro dittatore anche una delle donne più in vista della società albanese, una scienziata, laureata in Italia, anche lei concittadina del mostro, Sabiha Kasimati. Lei venne arrestata e fucilata senza processo nel 1951, in occasione della bomba gettata nel cortile dell’ambasciata sovietica.

L’Autore del romanzo, cercando la verità della morte di suo padre, arriva a rintracciare due ex compagni di prigionia, i signori Petrit Velaj e Angelo Kokoshi. Essi avevano condiviso con il direttore della banca la stessa sorte, la cella, la fame, la crudeltà delle guardie, forse anche la speranza di uscire da quel posto. È molto commovente il racconto di Velaj sulla profezia di Giuseppe chiromante, riguardo ad una futura visita di suo figlio per chiedere le informazioni su di lui. Sembra inverosimile ma sono sicuro che Velaj non mente. Ha conservato per decenni nella memoria questa profezia che si avvera. Dal suo racconto traspare la personalità di un uomo dignitoso, di una persona per la quale chiunque sarebbe felice di potersi onorare della sua amicizia, ancora di più come parente o come padre.

La conversazione con Angelo Kokoshi è uno dei punti cardinali del romanzo, un brano da antologia per il suo contenuto straordinario. “Il racconto di Angelo fa accapponare la pelle ; la sua era stata una vera tragedia. Ci guardiamo e di fronte a quegli avvenimenti ci sentiamo tutti piccoli piccoli e sprofondiamo nelle nostre poltrone quasi a nasconderci.”confessa l’Autore.

Contribuisce ad impreziosire la testimonianza di Angelo il suo spessore morale, la sua statura umana, la sua battaglia di una vita in difesa di una dignità forte ed indiscussa, dei principi nobili, alti ed incontrastabili. “Per costringermi a firmare la denuncia contro altri miei compagni, mi fecero scavare per tre volte la mia fossa, ma non cedetti mai.” È una realtà forse inconcepibile per il mondo di oggi, lontana dalla mentalità diffusa in una parte della società, che non indietreggia di fronte a nessun motivo di ordine morale per avere ad ogni costo denaro, potere, favori, piaceri. Da questo lato, da questo punto di vista, qualche lezione di onestà e di rispetto dei valori umani  si può prendere da quella parte della società albanese messa in croce dalla barbarie comunista.

Signore e signori, vi posso garantire dalla mia esperienza diretta che tanti miei compagni di sventura nella prigione politica avevano accettato consapevolmente le condanne a dieci anni di carcere rinunciando ad una vita in libertà, ma macchiata dalle denuncie di amici o parenti. L’ho fatto anch’io, sacrificando me stesso, abbandonando la mia famiglia, due genitori non più giovani e la moglie di 25 anni con due bambine di quattro e un anno, sapendo benissimo a cosa andavamo incontro loro ed io. La prima volta che mia moglie è venuta a trovarmi dietro le sbarre mi ha fatto questa domanda : ti senti a posto con la tua coscienza?  Ho risposto affermativamente e ho visto la luce nei suoi occhi. In quel momento ero l’uomo più felice di questo mondo.

Grazie signor Terrusi, mille volte grazie per avere messo in risalto, attraverso le pagine di questo romanzo, pezzi di una realtà virtuosa, che merita di essere sottolineata e riconosciuta anche dalla società italiana e da un mondo che ogni giorno ci da esempi della caduta verticale dei più preziosi valori umani.

L’opinione di Angelo, un rappresentante della Patria resistente al male, del Paese nobile, riguardo all’amico Terrusi, è un attestato di verità sublime e le sue parole sono la ricompensa più preziosa e la soddisfazione più grande per un figlio che ha perso il padre in tenera età, senza avere la fortuna di conoscerlo.

 “Tuo padre non andava ai lavori forzati, ma quando tornavamo, vedendoci in quello stato, ci aiutava come poteva e divideva con noi i suoi viveri. Sicuramente hai conosciuto tuo padre attraverso i racconti di tua madre e di tuo zio, ma la sua vera natura era quella vissuta tra noi, nei terribili anni di prigionia, quando ci trattavano come nemici del popolo e criminali di guerra. Mi dispiace riferirti cose che per te sono dolorose ma, caro amico, devi essere orgoglioso di tuo padre, che non si è mai piegato malgrado le pene disumane che quei disgraziati, trasformati in animali dall’ideologia marxista, ci infliggevano. La sofferenza si tramuta in orgoglio, passione e forza di sopravvivenza”.

Sentirsi orgoglioso del proprio padre costituisce una delle più grandi soddisfazioni che si possono provare nella vita di una persona. Il viaggio nel “Paese delle Aquile” arricchì l’immagine che l’Autore aveva creato di suo padre attraverso i ricordi della sua mamma. Le testimonianze sincere e veritiere dei compagni di sventura di suo padre hanno ampliato le dimensioni di quell’immagine, avvolgendolo in un’aureola di luce derivante da la convinzione ferrea che soltanto le prove difficili, affrontate dignitosamente, possono incoronare l’essere umano come tale.    

La visita nell’ex carcere di Burrel è la parte più importante del viaggio. Attraverso le parole di Angelo, la descrizione delle torture, le crudeltà indescrivibili di un apparato carcerario senza paragoni, mostrano agli occhi dei visitatori il vero volto di quel mondo orribile che fu il comunismo albanese.

“Ammutoliti, con l’orrore, la pietà e lo sdegno scolpiti sui nostri volti e col cuore gonfio di commozione ci avviamo all’uscita del carcere.”

Complimenti all’autore che ha sintetizzato in poche parole, con una concisione invidiabile, uno stato d’animo particolare, non soltanto dal punto di vista di un figlio che ha perso il padre tra queste mura orrende, ma anche come cittadino di una società che molto raramente si è ricordata di riconoscere le tragedie dei suoi figli, condannati e morti per mano di un regime con il quale si è flirtato per molto tempo.

Aldo Renato Terrusi ha il coraggio di denunciare dalle pagine del suo romanzo una verità che, purtroppo, anche nei giorni nostri fatica ad essere riconosciuta. Perché l’Europa democratica non ha mai considerato uguali le vittime dei due tipi di dittatura del continente ? Perché le vittime del comunismo sono ancora di serie B mentre gli orrori della Shoah, giustamente, vengono commemorati ai più alti livelli della vita politica, amministrativa e culturale delle nostre società ?

L’Autore non pone queste domande, ma esse nascono spontanee nella riflessione del lettore che segue attentamente i temi della memoria storica. Ma l’Autore è sconvolto profondamente nella sua coscienza di cittadino di un Paese democratico e, di fronte alla crudele realtà con la quale è confrontato in questi pochi giorni di permanenza “Oltre il mare, la dove sorge il sole”, prende un impegno che supera abbondantemente il suo dovere di figlio, quello di portare i resti del padre nella sua terra. 

Veramente vorrei fare anche qualcosa di più. Non so ancora come, ma mi piacerebbe far erigere una stele o mettere una targa in memoria dei morti comuni, italiani e albanesi, del carcere di Burrel.”

È la dimostrazione della consapevolezza che il male che ha colpito lui negli affetti più intimi si rivela un male generale di dimensioni impensabili, un male che ha divorato montagne di vite umane che si sono unite in quella disgrazia e che meritano tutte il riconoscimento, la venerazione di tutta una società, di tutte le generazioni, di tutte le nazioni. Quell’impegno fa onore alla sua persona ed illumina di una luce particolare la sua opera.

“Erigere una stele” doveva essere stato il primo pensiero, il primo impegno dell’Albania democratica nella sua strada. Purtroppo, caro Aldo, ancora oggi, dopo mille ipocrite promesse, nella nostra Albania non esiste nessun monumento dedicato alle vittime innocenti della dittatura e i sopravvissuti si devono accontentare delle briciole che i politici di oggi, figli legittimi ed illegittimi, materiali e spirituali di quelli di ieri, decidono ogni tanto di gettare loro dopo che si sono impadroniti di tutto, dell’economia come della politica, della stampa e dei media, persino degli amici del mondo libero. E la promessa del suo amico Topallaj di aiutarla nella realizzazione della “nobile idea” non credo che abbia avuto seguito, poiché nell’inconscio suo e dei suoi amici quelle vittime sono ancora dei “nemici di classe”.

Queste erano alcune delle riflessioni sorte dalla lettura di questo romanzo che merita un grande e sincero elogio per il tema trattato con obiettività, lo stile piacevole e scorrevole, i personaggi che restano impressi nella memoria ed il messaggio finale che trasmette.

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