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Quando i romeni eravamo noi

Mihai Mircea Butcovan, narratore e poeta, è nato nel 1969 a Oradea, in Transilvania, Romania. In Italia dal 1991, vive a Sesto San Giovanni e lavora a Milano come educatore professionale nell’ambito del recupero dei tossicodipendenti. Viene considerato scrittore migrante, come alcuni scrittori albanesi che scrivono in italiano

Shqiptari i Italisë: Vivi in Italia dal ’91, e sei stato dunque un testimone del fenomeno dei migranti in Italia. Se volessimo guardare indietro  com’è cambiato l’approccio degli italiani nei confronti di questo fenomeno?
Mihai Mircea Butcovan: Io posso testimoniare l’Italia che ho trovato nel ’91, e poi quella che ho osservato, nella sua evoluzione ed involuzione. Personalmente ricordo nei primi anni ’90 una grandissima ospitalità, un’accoglienza straordinaria. Questo però nel tempo si è deteriorato ed ha assunto anche aspetti negativi in alcuni italiani, tanto da diventare una vera e propria insofferenza. Inizialmente nei confronti degli albanesi, quando gli albanesi erano nell’occhio del ciclone, poi dei marocchini, poi ancora degli slavi, giudicati come categoria. Negli anni ’90 non avevo previsto che un giorno sarebbe capitato anche ai romeni, non perché i romeni fossero migliori degli albanesi o degli slavi, ma perché numericamente all’epoca erano irrilevanti e nessuno poteva prevedere un’immigrazione così consistente di romeni al punto di superare anche le comunità più numerose presenti in Italia. In Albania penso si parlasse più italiano di quanto si parlasse in Romania. Anche se la Romania è un paese di tradizioni latine, inizialmente i romeni erano più attratti dalla Germania, dalla Francia, dall’Austria. Mi ha sorpreso questo spostamento della meta migratoria verso l’Italia. Era complice naturalmente l’affinità linguistica. Ho visto, dicevo, un peggioramento di questo proverbiale spirito d’accoglienza italiano. Ho assistito con rammarico a questo fenomeno. Probabilmente l’immigrazione ha spinto l’Italia e la società italiana a una riflessione su cosa voglia dire accoglienza, non più come quella bonaria dei primi anni ’90, in cui la società viveva un momento di benessere economico. Penso che il successivo peggioramento economico abbia portato gli italiani a chiedersi di chi fosse la colpa del dover stringere la cinghia. E si è trovato naturalmente un facile diversivo negli immigrati. Anche da parte dei politici è stato usato a piene mani questo espediente, lo spostamento dell’attenzione sugli immigrati, facendo poi l’equazione immigrato-delinquente, e ritenendoli poi in seguito come gli unici responsabili del peggioramento delle condizioni dei cittadini. Nel frattempo l’immigrazione è aumentata enormemente. Ma non penso che la capacità di assorbirla da parte dell’economia italiana sia diminuita. Basti pensare alle pessime condizioni in cui si trovano, del lavoro in nero, malpagato, senza alcun tipo di tutela. Oggi ci troviamo in una situazione disperata. È in aumento la fascia della popolazione che respinge lo straniero. Poi si arriva a respingerlo anche politicamente, persino da coloro che in passato avevano preso tutt’altro tipo di posizioni. Invece il problema della sicurezza che viene oggi interpretata come un’esca da consenso elettorale c’era anche prima, basti pensare ai giudici che ci hanno lasciato la pelle per aver detto o scoperto cose scomode, non certo correlate alla presenza degli immigrati in Italia. Oggi l’emergenza sicurezza come diversivo viene connesso con il fenomeno dell’immigrazione. E purtroppo sono in tanti a crederci.

Non è piuttosto assurdo, dato che l’Italia oggi è multietnica di fatto, e non è più quella impreparata all’immigrazione come negli anni ’90?
C’è un sociologo di Milano che ci ricorda che “la ricchezza sbianca”: non vengono chiamati “immigrati” o “extracomunitari” gli uomini d’affari, gli sportivi o gli artisti di successo provenienti da paesi poveri. E poi molti degli immigrati emersi ed emancipati in vari settori, che hanno fatto vedere un altro lato dell’immigrazione considerata povera e vuota, vengono considerati come un’eccezione perché “stanno al loro posto” e apportano ricchezza. Mentre tutti gli altri no. Come se portassero più ricchezza di chi costruisce la Milano bene, o le ferrovie italiane a basso costo e senza tutele contrattuali. Questa è una massa che arricchisce l’Italia altrettanto o molto di più di quanto possano fare gli artisti, gli intellettuali o gli imprenditori immigrati che vengono visti alla pari. Spesso gli immigrati, nel silenzio delle case dove curano anziani e malati, come nel rumore delle cave e dei cantieri, arricchiscono non solo economicamente ma anche socialmente e affettivamente un paese in cui il welfare fa acqua da tutte le parti.  Naturalmente quando ci sono grandi numeri di persone arrivano anche persone problematiche, ma questo non può condannare in toto tutte le persone che vengono da quel paese. Invece spesso assistiamo ad una condanna collettiva delle persone che appartengono ad un popolo o ad una nazione. I media non stanno aiutando a migliorare la situazione, spesso contribuiscono alla diffusione di certi pregiudizi e alla costruzione di una certa avversione nei confronti degli stranieri.

Quanto incide su questi pregiudizi nei confronti dei romeni oggi, la Romania in quanto percepita come “Est”, una quasi “Slavia” come vogliono certi concetti di provincialismo qualunquista?
La riprova che in Italia si conoscesse poco di altri paesi l’abbiamo avuta in precedenza. Si diceva slavi e lo si dice tuttora, quando si immagina la nazionalità dei presunti delinquenti. Si crede che appartengano all’area slava, ma non si sa in base a quali criteri dato che spesso capita che abbiano il viso coperto e pronunciano poche parole. Questi fenomeni producono poi generalizzazioni di pessimo gusto. A undici mesi dall’ingresso della Romania nell’Unione Europea, abbiamo scoperto che in Italia della Romania si sapeva poco o niente. Un paese così vicino geograficamente, culturalmente, linguisticamente, ed ora anche politicamente, che tutti avrebbero dovuto conoscere un po’ di più, eppure si sapeva pochissimo, come anche della Bulgaria d’altronde. Siamo in Europa eppure non ci conosciamo. Quando va bene entriamo nell’UE, due o tre paesi per volta, ma dopo aver percorso tutta una fase di preadesione. Questo ci fa riflettere di quanto poco sia stato fatto negli anni precedenti all’adesione per conoscere un po’ di più i paesi neocomunitari. Questo mi fa pensare cosa avverrà quando capiterà all’Albania, o alla Turchia. Questo ha comportato delle generalizzazione disastrose e tristi malintesi.

Ritorniamo quindi alla responsabilità dei media?
L’informazione dei media è abbastanza superficiale. Penso che molto si possa fare anche nelle scuole. In alcune lo si fa, ma non si riesce a trasformare questa prassi in qualcosa di nazionale. Poi spesso si parla di immigrati senza immigrati, come anche gli immigrati si ritrovano spesso a parlare di italiani senza gli italiani. C’è quindi questa forma di auto ghettizzazione. Ci dovrebbe essere invece l’interesse a scovare l’altro. Spesso questa campagna di insofferenza comporta l’isolamento reciproco delle comunità invece di costruire comunità nella diversità e dalla diversità.

Che tipo di rilevanza ha la reazione del governo romeno, con il finanziamento della campagna sul miglioramento dell’immagine dei romeni? Quando la stessa sorte è capitata agli albanesi, e lo stato albanese è rimasto indifferente, gli immigrati albanesi hanno continuamente condannato questo atteggiamento. Invece i romeni come la percepiscono?

Non so come la percepiscano. Personalmente ho trovato atteggiamenti svariati. Alcuni positivi, e altri più critici. Io faccio parte dei secondi. Questa campagna l’ho trovata, seppur necessaria, estremamente dispendiosa e tardiva. Con i soldi che il governo romeno ha messo a disposizione di quella campagna in Italia e in Spagna si poteva fare un lavoro molto più capillare, facendo più informazione culturale sulla Romania, ad esempio sostenendo le decine e decine di associazioni culturali dei romeni, molto attive. Non so quanto abbiano contribuito a migliorare la situazione quei pochi secondi di pubblicità. Sarebbe interessante vedere i risultati della campagna. Era tardiva perché è arrivata molto dopo l’ingresso della Romania nell’Unione europea. Non è nata a titolo preventivo ma solo quando è iniziata la discussione sulle espulsioni, in chiave emergenziale.

Ti definisci scrittore migrante?
Io mi metto già in imbarazzo nel sentirmi chiamato scrittore o poeta. Non so se la gente legge i miei testi nella lingua in cui sono stati pubblicati, e poi si chiede se si tratta solo di una buona traduzione o meno. Se poi il lettore si interessa sul fatto che questo scrittore scrive in una lingua che non è la sua, si potrebbe parlare di scrittore migrante. C’è infatti il rischio di sembrare ambigui, per un verso nascondersi dietro l’essere migrante, e per l’altro con la scusa che uno non è madrelingua pretendere che venga concesso anche qualche strafalcione o usufruire di interventi stravolgenti da parte degli editor sui testi.

Come avviene la tua scelta dell’italiano?

Diciamo che l’italiano ha scelto me. Una volta arrivato in Italia, poco più che ventenne, la lingua italiana è diventata la lingua della mia quotidianità, dei miei studi, delle mie letture, dei miei affetti ed anche dei miei sogni. Non l’ho voluto io, è avvenuto tutto in maniera naturale: dove mi hanno portato i piedi c’era una lingua, il cuore e la mente l’hanno accolta. E quindi è diventata anche la lingua della mia scrittura.

Intervista di Marjola Rukaj

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