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Qui pro quo

Dall’archivio di Bota Shqiptare – Pubblicato nel numero 15 dell’11 marzo 2000
Di Roland Sejko

 

Eravamo quasi abituati all’attacco costante della stampa, sia di destra che di sinistra, contro gli albanesi. Ritenevamo ormai una battaglia persa (e tale forse rimane) spezzare quel pregiudizio che si è insinuato nell’opinione comune grazie alla campagna della stampa contro gli albanesi, grazie a quel luogo comune che è diventato l’equazione “albanese uguale criminale”. Eravamo abituati a tal punto che nel nostro giornale rappresentavamo con ironia i grossolani errori dei giornali riguardo agli albanesi (uno per tutti, l’esempio di due vittime di rapina in Nord Italia che, a detta dei giornali, avevano riconosciuto l’accento albanese dei rapitori mascherati, grazie alla conoscenza della lingua araba!)

Ma proprio da questo tipo di errore da ignoranza è nata ultimamente la mania italiana, riflessa in tutte le pagine di cronaca, di riconoscere l’accento albanese in ogni rapinatore che non parli bene l’italiano. All’improvviso, tutti gli italiani si scoprono linguisti, esperti di fonetica in grado di riconoscere e dire con sicurezza che tale rapinatore con una tale inflessione non può che essere albanese.

La psicosi linguistica sul rapinatore che venne dell’est (marocchini, indiani, africani sono fregati prima di aprire bocca) è diventata così di successo che anche i rapinatori italiani stanno correndo ad imparare l’albanese. Io ormai sono quasi convinto che da qualche parte esistono corsi per l’insegnamento della lingua albanese, o di elementi di fonetica albanese. E che gli insegnanti sono tutti professori dell’Università di Tirana. Altrimenti non si spiega come anche i veri esperti della polizia italiana, quelli che vengono pagati per riconoscere le inflessioni linguistiche nelle telefonate, possano essere tratti in inganno dall’accento “sicuramente albanese” dei due ultimi allievi di questo corso.

Si tratta della vicenda tragica del recente rapimento dell’imprenditore Tacchinardi, rapimento che, per fortuna, si è concluso con la cattura dei sequestratori, due italiani. Nonostante fosse stato chiesto il silenzio stampa da parte della famiglia, i giornali dedicarono le prime pagine all’evento. Nella confusione, una delle poche cose sulla quale gli inquirenti si trovavano d’accordo era l’accento dei sequestratori: “parlavano con una chiara cadenza slava, probabilmente albanese” sottolineavano in più.

Ora, a prescindere dal fatto che gli italiani sono delle cime in lingue straniere, sfido anche chi ha studiato glottologia di trovarmi elementi che possano accomunare la cadenza slava e quella albanese. È penoso (ma doveroso) ricordare agli esperti di polizia, o ai cronisti, o a chi legge le pagine dei giornali che pagano questi cronisti, che l’albanese con lo slavo non c’entra proprio, sono due lingue completamente diverse, che “avevano un accento slavo, probabilmente albanese” è pura ignoranza (magari voluta) di storia e di linguistica.

Ma gli esperti vanno oltre quando cercano di identificare i sequestratori prendendo in esame le loro telefonate. Stabilita la provenienza linguistica, cercano qualcosa che tolga ogni dubbio sulla loro identità. Fanno un esame linguistico profondo: controllano anche le parole usate “Se non pagherete, gli taglieremo la gola!” avevano detto al telefono i sequestratori. “La ferocia di questo lessico, per i carabinieri, è inequivocabile: appartiene ai balordi, alla criminalità slava e albanese.” (Il Messaggero, venerdì 3 marzo 2000, pagina 3). Come inequivocabile? Un italiano non avrebbe mai detto “gli taglieremo la gola”? Che, avrebbe per caso preferito un linguaggio più fine, tipo “lo sgozzeremo” oppure “lo scioglieremo nell’acido”?! Il bello arriva quando i sequestratori vengono arrestati: sono due siciliani. I siciliani che imitano gli albanesi per sembrare feroci? Non c’è più religione!

I due “feroci individui” si scoprono due agnellini, due poveracci: vengono addirittura definiti due “poveri cristi”, due “non professionisti” esposti alla derisione dei superpoliziotti e dei cronisti che prima della cattura, quando erano albanesi, li consideravano ferocissimi, organizzatissimi, con legami internazionali e un piano studiato nei minimi particolari… All’improvviso si prova pena per loro, quasi quasi ti viene voglia di adottarli, questi due poveracci che non volevano uccidere, dicono, volevano solo un po’ di soldi, giurano, avevano chiesto poco, la modica cifra di 800 milioni, ma, assicurano, erano pronti a trattare e a scendere fino a 200! Chiedono perdono al rapito, che giustamente, sdegnato, lo rifiuta.

Nessuno si è accorto che nei giorni di ricerca del rapito, a causa dell’accento albanese dei “poveri cristi” e del successivo tam tam della stampa, tanti datori di lavoro del milanese, convinti che i sequestratori fossero albanesi, licenziavano in tronco i loro dipendenti albanesi; la polizia intraprendeva un’imponente operazione di controllo nelle case degli albanesi che vivono in zona, entrandovi e cercando lì il rapito. Immagino con quale delicatezza. E li capisco, anche. Ma dopo, agli albanesi, nessuno ha chiesto perdono.

Tutta colpa dei pregiudizi? No. Non apparteniamo a chi considera gli albanesi immacolati. Noi non siamo angeli. Ma non siamo nemmeno demoni. E una volta per tutte, per chi non l’abbia ancora appreso nonostante i mesi di guerra in Kosovo,  non siamo slavi. Siamo albanesi. In maggior parte gente per bene. Esattamente come gli italiani.

Pubblicato su Bota Shqiptare n. 15 dell’11 marzo 2000

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