In campo a Varsavia c’era anche il concetto di cittadinanza. Lo ius sanguinis è un pallone vecchio, come la classe politica che continua a rincorrerlo
Tanti saluti al sangue italiano, tanti saluti alla terra dei padri. Balotelli ha preso di nuovo a calci e a testate, con la forza violenta che gli gonfia i muscoli, la cittadinanza intesa come roba di razza, di pedigree generazionale.
Quanto è italiano Mario? Abbastanza da portare il tricolore in finale. Per regalare caroselli notturni a un Paese ammorbato dalla crisi che implora scuse per tornare a sorridere. Per gonfiarci di nazionalista soddisfazione dopo il trionfo su quella stessa Germania che fatichiamo a rincorrere su campi molto meno verdi.
Eppure anche lui, nato a Palermo il 12 agosto 1990, fino a quando non ha compiuto diciotto anni è stato per legge uno straniero. Un atipico ragazzo di “seconda generazione”, abbandonato dai genitori biologici e cresciuto da una famiglia italiana, ma che pure si è dovuto portare addosso l’assurdo marchio di “immigrato” insieme a centinaia di migliaia di coetanei, amati figli dell’immigrazione.
Balotelli giovedì sera ha fatto rotolare fuori campo lo ius sanguinis, quel “sono italiano perché mio padre è italiano”. E ha lanciato in rete il pallone nuovo e vincente, “sono italiano perché è qui che cresco e divento uomo, perché è questo il Paese che sento mio”. Che poi uno l’Italia la ami davvero o no, lasciatecelo scrivere, sono fatti suoi.
C’è però ancora chi crede che l’italianità sia genetica, una cosa da tramandare tramite accoppiamento tra uomo e donna, gravidanza, parto.
Roba da deliri del secolo scorso, buona per i rigattieri, vecchia, vecchissima, superata. Come la gran parte della classe politica che sulla riforma della cittadinanza per le seconde generazioni continua a nicchiare, facendo finta di non sapere che ostinarsi a cercare il tricolore nel DNA non è poi così diverso dal gridare a SuperMario che “non esistono negri italiani”.
Elvio Pasca
Super Mario da prima pagina
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