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Essere un immigrato

Robert Shkurti è nato a Durazzo e vive a Reggio Emilia dal 1997. È autore di due libri. Il primo, “Sotto il cielo delle aquile” è una raccolta di racconti e saggi, scritto in italiano e pubblicato da Albatros nel luglio 2010. Il secondo è un romanzo. “Drejt Jetës”, scritto in albanese, è appena uscito nelle librerie in Albania.
Ai lettori di shqiptariiitalise.com regala il saggio “Essere un immigrato”, dal suo primo libro.

Essere un immigrato

Essere un immigrato. Che cosa vuole dire? Vuole dire non avere un’identità. Vuole dire non appartenere più al paese in cui si è nati e cresciuti ma vuole dire anche non sentirsi parte del paese in cui da anni vivi e lavori. Vuole dire essere spaventati per il presente e per il futuro. Inoltre temi per i tuoi figli, nonostante siano nati, cresciuti, istruiti nel paese in cui sono migrati i genitori, il quale però, non verrà mai considerato la loro vera patria. Questo accade per un semplice motivo. Il cognome non cambia, rimane sempre quello del paese d’origine e, per quelli del posto invece, quel cognome straniero avrà sempre un suono molto strano. Tu come genitore ti trovi in difficoltà,non sai come rispondere a tuo figlio quando ti fa una domanda semplice del tipo: “Papà, ma io cosa sono italiano o straniero?”

In modo molto paziente, cercando di trovare le parole giuste gli spieghi che non è ancora italiano perché loro, la mamma e il papà, hanno un’altra origine.

“Ma io sono nato qui” – insiste lui.

Nuovamente cerchi di spiegargli il perché di questo fatto, ma il tuo bambino non vuole capire. Forse ha ragione! La patria dei suoi genitori forse non l’ha mai vista. La loro lingua non la sa parlare o la sa parlare poco o conosce solo qualche parola. Quando si rivolge a loro lo fa nella lingua che parla all’asilo o a scuola ma le risposte gli giungono nell’altra lingua, perché probabilmente i suoi genitori non la sanno parlare bene. Però il bambino fa fatica a capire una qualsiasi risposta datagli dal padre o dalla madre e così, tra una lingua all’altra si arriva solo ad un enorme confusione.

Il bambino si sente smarrito, non capisce il perché della situazione, però nello stesso tempo si arrabbia perché tu non sei del paese in cui vive. E gli dai ragione. Lui ha ragione! E cosi ti senti frustrato e cominci a maledire la burocrazia del paese, a causa di questi insormontabili e insensati ostacoli.

E il bello arriva quando sai che tuo figlio a scuola si sente diverso. Si sente messo da parte, perché magari diversamente da altri, non sa “parlare” bene la lingua dei suoi compagni. L’effetto è immediato.

Nella più scontata delle situazioni vengono a crearsi gruppi, gang, divisioni che portano gli stranieri a stare tra di loro e separati dagli altri. Si crea così un conglomerato di lingue ed etnie diverse che può fare solo disorientare quelle menti infantili.

C’è un detto che dice “devi entrare in acqua per imparare a nuotare”. Ed è a partire da questo momento che si instaura quella divisione sociale e religiosa che porta solo a odio di tipo razziale, dannosa per la società contemporanea e multietnica diventando così una sorta di cancrena incurabile.

Ma come genitore ti senti onorato di trasmettere a tuo figlio virtù importantissime (che sono alla base del tuo paese) come l’amore ed il rispetto verso i genitori e verso le altre persone, l’ospitalità, la sincerità e la fedeltà, virtù che trovi anche lì sicuramente, ma che sono via via meno presenti.

Essere un immigrato vuole dire essere sottomessi come il bue sotto il giogo.

Devi accettare ogni tipo di lavoro, anche se hai terminato gli studi con una laurea e, il più delle volte, la tua cultura supera quella del tuo datore di lavoro. E così disprezzi te stesso, anche se non hai colpa , quando ti vedi a fare un tipo di lavoro lontanamente paragonabile alle tue capacità. Essere un immigrato vuole dire vivere con la paura dell’espulsione in caso di perdita del lavoro, vuole dire non essere mai sicuro, sereno e continuamente minacciato. Essere un immigrato vuole dire non conoscere il significato della parola prospettiva. Senti sopra la tua testa, la spada di Damocle. Vuole dire sentirsi umiliati e continuamente offesi quando ci si trova in questura per rinnovare il permesso di soggiorno oppure quando quest’ultimo serve da presentare in diversi altri uffici ti senti dire: “Questi documenti li devi rifare, sono scaduti.”

Sei sempre in bilico. Ti senti un vagabondo che gira qua e là per rinnovare un documento non più valido solo per questioni di tempo, non per altro.

Che stupidaggini! Sei continuamente sotto gli sguardi degli altri. Anche dei tuoi vicini di casa che quando passi per buttare la spazzatura ti guardano con paura e insicurezza come fossi di un altro pianeta. Ti scambiano per un ladro, un criminale, spacciatore di droga o di prostituzione. I vicini di casa forse hanno anche ragione. Perché quando arriva il momento di sentire il telegiornale si ha paura. Speri continuamente che non ci siano notizie di cronaca nera o cose di questo genere. Sei certamente contro il crimine, è spaventoso, ma è ancor più spaventoso quando a partire da una certa persona si arrivi a una generalizzazione totale della nazionalità di una persona. Si comincia allora a vedere i marocchini come stupratori, gli albanesi come criminali, i romeni come ladri. Ma sono realmente tutti così? Perché questa domanda ci è difficile farcela? Di razza ne esiste una sola ed è quella umana. Punto. Perché ci si deve sentire in colpa per un crimine commesso a distanza di anni, mesi o settimane da qualcuno che io non conosco, ma con il quale ho in comune sola la provenienza nazionale?

A questo punto avendo un nome e un cognome diverso da quello del nostro vicino di casa, dobbiamo rispondere delle nostre proprie azioni.

Essere un immigrato vuole dire anche essere costretti ad imparare la storia, la cultura e le tradizioni e la lingua di un altro paese. Questo non è un male. Anzi è una virtù.

È la nostra conoscenza che cresce. Parliamo una lingua in più. Conosciamo una politica diversa. Sappiamo pronunciare più o meno correttamente il cognome del nostro vicino anche se lui non è capace di fare lo stesso con noi.

Si vive ogni giorno nascosti dalla luce del sole e, per quanto si tenti, non si riesce mai a raggiungere la vetta di quella montagna altissima. Le pensi tutte. Ma come fare? Quale strada scegliere da percorrere? Hai sempre davanti a te una salita , per arrivare alla cima hai costantemente bisogno di un bastone. Ma hai paura nel scegliere il bastone giusto perché durante il viaggio potrebbe spezzarsi. Non importa, tu lo prendi ugualmente e, nel caso andasse male, farai a meno del suo aiuto. Continui a salire e lì in cima vedi delle persone sorridenti e felici. Senza volere diventi invidioso, vuoi anche tu essere come loro. Ti chiedi come mai siano così spensierati dopo una lunga e dura salita ,ma poi ci pensi un attimo e concludi che loro non l’hanno fatta a piedi ma hanno usato mezzi più veloci. Senza fatica. Perché quella strada e quei mezzi sono stati procurati loro dai nonni e dai bisnonni. Hanno trovato tutto pronto. Tutto semplice. Terminata la lunga salita, provi anche tu a entrare nel loro cerchio per essere felice e spensierato come loro. Alcuni ti aiutano, sono lì con te ma altri non ti vogliono, non ti possono vedere, vorrebbero che inciampassi e cadessi dalla rupe. Tu te ne accorgi da come ti parlano, da come ti guardano. Sai cosa dicono alle tue spalle. Senti continuamente la rabbia dentro di te, senti l’ingiustizia attorno a te. Anche tu hai diritto ad essere felice, anche i tuoi figli hanno il diritto di imparare e lavorare come tutti. Sei costantemente disorientato. È difficile, molto difficile, andare avanti, non sai cosa ti aspetta, come reagire, ma tornare indietro non è da considerare perché nonostante tu ritorni nel tuo paese d’origine, sei comunque diverso. Vieni considerato diverso. Vivi in due mondi diversi ma nella stessa frazione di tempo. E l’unica scelta saggia è quella di diventare cittadino del posto in cui vivi prendendo la cittadinanza Ma, anche se ci provi e ci riesci, non sei come loro. Non vieni considerato come uno di loro, anche se le condizioni in cui tu vivi sono tali e quali alle loro. Una parte della politica e della burocrazia si ribella perché si sente gelosa e mette ostacoli, dove può. Quello che ti rimane da fare è avere pazienza e chiudere gli occhi sperando che qualcosa cambi.

Il povero immigrato così sopporta, come la montagna che aspetta con ansia la primavera e i primi raggi di sole per sciogliere quella pesante, ingombrante neve fredda che gli ha compresso le spalle per tanto tempo.

Sopporta per il bene dei suoi figli, della sua famiglia. Si sacrifica per quello in cui crede e così chiude gli occhi davanti alla discriminazione razziale, religiosa.

Sopporta. Aspetta e spera che i suoi figli crescano, si facciano forti e non soffrano davanti a una realtà purtroppo difficile.

Essere un immigrato vuole dire doversi integrare per forza, dover rispettare le leggi di quel posto, doversi comportare in maniera civile e acculturata. A partire semplicemente da piccole cose, come ad esempio il modo di parcheggiare la macchina o il buttare la spazzatura nei cassonetti giusti (che forse nel paese natale è abituato a buttarla ovunque). La capacità di controllarsi nel parlare, specialmente in luoghi pubblici, usando un tono di voce discreto e non esagerando nel parlare come se fossi in una foresta. Il dover rispettare la cultura del paese in cui vivi e ti ospita, perché in fin dei conti sei tu che hai scelto di fare quel grande passo dovuto a necessità di tipo economico e politico. Esattamente per questo è importante infine dare per avere, affinché le persone possano a vicenda accettare la diversità e non vederla come una minaccia.

Robert Shkurti

Marzo 2009, Reggio Emilia

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