Dopo 7 anni di carcere duro, mio padre Giuseppe Terrusi morì a Burrel il 2 marzo 1952.
Essendo profondamente convinto che poter pregare sulla tomba dei propri famigliari sia un Diritto Umano Universalmente Riconosciuto, fino a che le mie forze me lo consentiranno, le richieste per la restituzione delle spoglie di mio padre saranno presenti in tutte le sedi possibili sia italiane che albanesi. Ancora oggi, anno 2019, dal Paese delle Aquile non è arrivato alcun riscontro alle reiterate richieste di restituzione delle spoglie di mio padre
Di Aldo Renato Terrusi
Alla carcerazione di Giuseppe e dei suoi impiegati (1945) seguì lo sfratto dalla banca di tutta la famiglia che fu costretta a vivere in ristrettezze nella casa dei nonni a Valona. Nel 1946 la famiglia fu trasferita a Tirana. Nel 1949 tutti i componenti della famiglia furono imbarcati, come profughi, e rimandati in Italia.
Dopo 7 anni di carcere duro, Giuseppe morì a Burrel il 2 marzo 1952.
Cosa si può dire di più? È sufficiente rileggere la sentenza per capire con quanta ottusità, supponenza, cattiveria e ignoranza delle più basilari leggi morali e civili, si siano mossi i giudici militari della “Corte di Enver”.
In questo modo Enver Hoxha aveva soddisfatto il suo orgoglio ed il suo ego di dittatore e di “superuomo” per aver ottenuto due importanti vittorie personali:
- – Aver giustiziato un intellettuale, anche se innocente, molto conosciuto ed importante.
- – Essersi vendicato per il rifiuto di Aurelia alle sue pretese.
Purtroppo per l’Albania, chi ne ha sofferto di più, a causa della paranoia del loro “grande capo”, è stato proprio il popolo che cadde nel culto della personalità, abilmente costruita da Enver e dal suo Comitato.
Idolo di sé stesso, con il fine ultimo del potere ottenuto senza gloria, Enver riuscì ad esercitare sulla giovane Nazione albanese l’affascinante ruolo di “Padre della Patria”, padre che nella sua vana gloria ha soggiogato e ucciso per 50 anni i suoi figli che ancora pagano sulla propria pelle le deliranti ambizioni di un uomo fuori dalla storia.
Dopo aver ascoltato le testimonianze dirette e indirette, essere stato nei luoghi dove si è svolta la tragica storia della mia famiglia, da Argirocastro a Valona, da Tirana a Burrel, aver recuperato miracolosamente i documenti originali del processo di Valona del 1945 a mio padre con l’aiuto del mio amico d’infanzia, Gezim Peshkepia, posso affermare di essere arrivato alla fine della mia personale ricerca della verità storica.
Mio padre potrà dire, dall’alto dei cieli, che il figlio ha fatto tutto il possibile affinché la sua memoria potesse essere onorata al di là di ogni ragionevole dubbio.
Ancora oggi la mia “odissea” non è finita, da quel novembre del 1993 quando rimisi piede sul suolo albanese, nonostante le molteplici richieste mie e delle Istituzioni italiane al Governo albanese per la riesumazione e la restituzione delle spoglie di mio padre e dei detenuti morti nel carcere di Burrel, le promesse di intervento delle più alte cariche dello Stato e del Ministero della Giustizia albanese, le ossa di quegli uomini sono ancora sotto la fredda terra di quel luogo famigerato.
A nulla sono serviti i sopralluoghi, proseguiti negli anni, sul campo delle sepolture di Burrel, così come i progetti per gli interventi di individuazione e riesumazione delle spoglie dei defunti.
Nonostante la latitanza delle Istituzioni albanesi, sono riconoscente a Nevila Nika per il ritrovamento dei documenti originali del processo a mio padre ed è a Lei, quale Direttrice dell’Archivio di Stato, che il 15.09.2012 ho donato il Libro “Les Cent Vues de Paris” che Enver Hoxha aveva regalato a mia madre nel 1930 con dedica autografa.
Nel novembre dello stesso anno ho consegnato ad Armand Duka, Presidente della Federazione del Calcio Albanese, in segno di stima e rispetto, il diploma originale oltre che i documenti e le fotografie che mio zio, Giacomo Poselli, come portiere della Nazionale di Calcio albanese, aveva vinto in occasione delle Balcaniadi del 1946. Oggi, quei cimeli, sono esposti al Museo del Calcio a Tirana.
Durante i miei, ormai numerosi, viaggi in Albania ho avuto modo di entrare in contatto con diverse persone che mi hanno gratificato di una sincera e spontanea amicizia, sono stato ospite a casa loro e ho condiviso con loro le indelebili pene causate dalla Dittatura Comunista.
Praticamente non c’è famiglia albanese, che ho incontrato, i cui componenti non abbiano sopportato soprusi, carcere, torture o la morte. Per questi motivi mi sento particolarmente vicino al sentimento del popolo albanese e riconosco l’Albania come la mia seconda patria anche se non so una parola in albanese, anzi sì, una la conosco: “po” che significa “si” in italiano, ma non è stato un problema perché la maggior parte della gente che ho incontrato capiva benissimo l’italiano e spesso lo parlava.
Ciò che invece non riesco proprio a capire è l’atteggiamento contraddittorio e inconcludente del Governo albanese. Fino a quando la famiglia Poselli/Terrusi “ha dato” contribuendo allo sviluppo dell’Albania: Giacomo, portiere della Nazionale di Calcio Albanese, Giuseppe, direttore della Banca d’Albania di Valona, Vitaliano, geniale imprenditore, le loro imprese sono state molto gradite, ma quando io mi sono permesso di “chiedere” semplicemente le spoglie di mio padre, a parte la cordialità, la condivisione e le subdole promesse delle autorità governative sul caso Burrel, le cose si sono maledettamente complicate e nessuno è stato in grado di dare una risposta sicura e definitiva. Insomma ho avuto la netta sensazione di un’allegorica presentazione teatrale. Anzi qualche funzionario si è permesso di chiedere finanziamenti “ad personam” che avrebbero agevolato le pratiche e che ho etichettato come il classico sciacallaggio.
Trattandosi di un’Istituzione dello Stato (il carcere di Burrel), come si può pensare che un cittadino italiano, tramite un accordo personale con un responsabile delle Istituzioni ottenga il permesso di scavare e portarsi a casa le ossa del padre!?
Soltanto lo Stato Albanese, prendendosi le proprie responsabilità, può e deve intervenire all’interno delle carceri per restituire le spoglie ai legittimi famigliari.
Sotto quella terra non c’è solo Giuseppe Terrusi ma ci sono anche i resti di cittadini albanesi che sarebbe giusto consegnare ai propri cari. Un diritto universalmente riconosciuto disatteso dal Governo albanese.
Mi domando perché sia così difficile intervenire in quella zona, compresa tra le due recinzioni del carcere. È un terreno quadrangolare, incolto, grande quasi quanto un campo di calcio.
Sono stato accompagnato su quel luogo più volte, la prima volta nel 1993 con Angelo Kokoshi che come testimone diretto, ha raccontato le vicende in piena libertà, senza pressioni, come Petrit Velai, anch’egli testimone diretto, da me intervistato a Valona, in tempi non sospetti, aveva dato la stessa versione di Kokoshi. Nei successivi incontri con alcuni responsabili istituzionali, quando ho chiesto informazioni, le risposte sono sempre state vaghe e inconcludenti, spesso contraddittorie. Altrettanto spesso i soggetti si mettevano a litigare tra loro, davanti a me, per questioni di competenze territoriali o gerarchiche al fine evidente di lucrare denaro. Nessuno sapeva o non voleva dire cosa era realmente accaduto, in quel luogo tra gli anni ’40 e ’50. Anche il protocollo di intesa firmato il 23.03.2012, durante una delle viste nel Carcere di Burrel, nel quale si dichiarava la disponibilità allo scavo, è rimasto “carta straccia”.
In questi anni, prima il Governo di Sali Berisha poi quello di Edi Rama hanno istituito la loro Task Force per la ricerca delle spoglie delle vittime della Dittatura.
La prima Task Force (di Berisha) era composta da soli burocrati che non sono riusciti a organizzare neanche un progetto di intervento su Burrel.
La seconda Task Force (di Rama) si è interessata alle ricerche delle spoglie delle vittime della Dittatura per tutta l’Albania, senza alcuna certezza di ritrovamento, quando c’erano certamente all’interno del carcere di Burrel le spoglie dei carcerati che attendono ancora di essere riesumate.
In un incontro con la Presidente del Parlamento, Josefina Topalli, il 23 dicembre 2012 in occasione della consegna della prima edizione del mio libro, “Brenga ime shqiptare”, ad una mia domanda sulla situazione delle sepolture del carcere, fu sorpresa e la sua risposta (diplomatica) fu semplicemente che Lei non conosceva le vicende di Burrel! Ma come è possibile, una Presidente del Parlamento che non conosce la storia del proprio Paese!?
Alla richiesta ufficiale della documentazione sulla morte di mio padre nel carcere di Burrel, attraverso l’Ambasciata d’Albania a Roma, il 19 marzo 2014, mi arriva la risposta ufficiale dall’Ambasciata via mail:
“Vi allego la risposta del Ministero degli Esteri albanese che da parte sua inoltra la risposta della Direzione Generale delle Case Circondariali che reitera che non dispongono di informazioni in merito.”
Ma come è possibile che non sappiano niente!? Io ho il documento originale attestante la morte di mio padre Giuseppe Terrusi e di altri nel Carcere di Burrel il 2 marzo 1952 che è stato trovato presso l’Archivio di Stato!
- – Perché le Istituzioni albanesi non sanno, non possono o non vogliono dire la verità?
- – Perché non si vuol intervenire a Burrel, dove per certo ci sono le sepolture?
- – Quali sono le vere motivazioni di una negazione infinita: paura, conflittualità, complicità, omertà?
Ancora in questi giorni, da Gentiana Sula mi sono sentito dire di fare una richiesta alla Sigurimi per cercare ulteriore documentazione! Ma quale altra documentazione si va cercando!?
Un’altra assurda proposta del Procuratore è stata quella di cercare i famigliari albanesi delle persone sepolte a Burrel per avere un certo numero di domande per la riesumazione dei resti. Le stesse famiglie che ora si dovrebbero cercare furono dissuase dal Governo a continuare nelle loro legittime richieste alcuni anni prima!
Credo che sarebbe utile alla politica albanese, considerando la giusta propensione della Nazione all’ingresso nella Comunità Europea, non continuare a coprire il proprio passato con un pietoso velo ormai logoro. Un’iniziativa per la riesumazione delle spoglie dei morti all’interno delle carceri di Burrel, oltre che avere una grande rilevanza di umana carità e di pietà cristiana, sarebbe accolto con grande favore dalla diplomazia internazionale per almeno due fattori:
Per la prima volta il Governo albanese acconsentirebbe ad intervenire all’interno di una propria Istituzione con l’intento finale di disseppellire le ossa dei morti politici del periodo della Dittatura, con la conseguente ammissione formale di un revisionismo storico in atto.
L’Albania è sotto osservazione per il suo ingresso in Europa. Pertanto se il Governo albanese si presentasse con un’azione di clemenza e democrazia quale sarebbe la restituzione delle ossa ai famigliari di quei poveri morti, avrebbe certamente un ampio riconoscimento a livello internazionale sia politico che istituzionale.
Per evitare incomprensioni e accuse reciproche e indebite tra i politicanti albanesi, sarebbe sufficiente intervenire scientificamente, prima con strumenti elettronici, normalmente usati dagli archeologi, che permetterebbero di identificare con precisione le sepolture, e poi, con scavi controllati, precisi e coordinati, in modo da non lasciare più dubbi ad alcuno e far riemergere finalmente la verità, tante volte bistrattata, rivista e corretta a fini giuridico politici e amministrativi. Una volta trovati i sepolcri sarà sufficiente procedere alla verifica del DNA dato che i carcerati morti venivano seppelliti senza riferimenti e senza nome per non farli trovare e riconoscere.
Una cosa è certa, essendo profondamente convinto che poter pregare sulla tomba dei propri famigliari sia un Diritto Umano Universalmente Riconosciuto, fino a che le mie forze me lo consentiranno, le richieste per la restituzione delle spoglie di mio padre saranno presenti in tutte le sedi possibili sia italiane che albanesi. Ancora oggi, anno 2019, dal Paese delle Aquile non è arrivato alcun riscontro alle reiterate richieste di restituzione delle spoglie di mio padre.
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