Il 5 ottobre, il PAC, Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, inaugura “Vite in transito”, la retrospettiva che in Italia segnerà una traccia di rilievo nell’iter dell’artista albanese Adrian Paci. Un’ampia selezione di opere realizzate a partire dalla metà degli anni Novanta fino alla produzione più recente. Di seguito, un’intervista dell’artista data a Ginevra Bria per artribune.com
L’antologica dedicata ad Adrian Paci (Scutari, 1969), artista d’adozione milanese, presenta una selezione di opere realizzate dagli Anni Novanta fino ai lavori recentissimi come The Column (2013). Un percorso che promette di esprimere l’intera portata silenziosa di visioni dedicate al recupero del tempo nei solchi delle proprie radici; tra disegni, fotografie, dipinti, video e sculture. Artribune ha intervistato Adrian Paci in anteprima, per scoprire più da vicino le novità reali esposte al PAC.
Di recente ho conosciuto le persone che hanno aiutato sia te che la tua famiglia a introdurvi nei difficili ambienti culturali italiani. Da loro sei stato descritto come un tesoro da salvare, fin da subito. Ricordi il momento peggiore e il momento migliore della tua vita in transito fuori dall’Albania?
Posso immaginare a chi ti riferisci, ma persone che mi hanno sostenuto ce ne sono state tante. Dalla prima borsa di studio ricevuta da una fondazione di Don Orione, fino alle ultime mostre, la strada è stata lunga e lunga è anche la lista delle persone a cui devo un sincero riconoscimento. Sicuramente ci sono stati momenti belli e momenti brutti come in tutte le esperienze, ma non andrei a ripescarli ora.
Ad oggi, non ti penti, ex post, di aver scelto l’Italia come tua nuova patria, visto che ha ampiamente deluso le aspettative di diventare un Paese europeo alla prova dei fatti?
No, non mi pento di essere venuto in Italia. Sicuramente l’Italia non è oggi nel suo momento migliore e spesso appare deludente, apatica e ingarbugliata nelle sue complicazioni. Forse non c’è niente di entusiasmante in tutto questo, ma non mi sento pentito. Sarà forse il fascino del passato grandioso, il clima, il paesaggio… oppure, chissà, forse un’attrazione del tutto irrazionale, ma niente pentimento.
Ritieni che il tuo Paese, con il nuovo primo ministro, possa diventare davvero accogliente per la creatività contemporanea? A tuo modo di vedere, la visione di Tirana come una nuova Berlino è troppo forzata?
Il mio Paese ne ha di problemi da risolvere e ovviamente ci vuole, oltre al sapere e alla buona volontà, anche tanta creatività. Al nuovo primo ministro non manca di certo questa creatività. Bisogna solo vedere se la nuova classe politica in Albania sarà disposta ad affrontare la fatica e la pazienza che richiedono le cose per essere curate dalla semina alla crescita fino al frutto finale, oppure sarà tentata di fare scelte spettacolari che colpiscono subito ma rimangono in superficie. ‘Creatività’ è un termine di cui molto si abusa nelle economie neoliberali e nella società dello spettacolo. Io preferisco più le scelte radicali, ma dove per radicale si intende la profondità delle radici e non l’estremismo di facciata.
Per quanto riguarda Tirana come una nuova Berlino, penso che riferirsi a modelli vada bene, ma tentare di copiarli non serva a niente. A Berlino si sono fatti importanti investimenti economici, politici e culturali in un momento storico in cui la Germania voleva mostrare al mondo la sua forza e la sua integrità. L’Albania è molto più fragile per reggere il paragone, ma ha le sue forti potenzialità e le deve coltivare. Comunque tutti ci aspettiamo una svolta positiva e speriamo di vederne i risultati.
Vite in transito è un percorso composto da una ventina di opere tra video, pittura, sculture e foto realizzate dal 1997 a oggi. La mostra è stata fino al 12 maggio al Jeu de Paume di Parigi, curata da Marta Gili – direttrice del museo – e da Marie Fraser in collaborazione con il Museo d’Arte Contemporanea di Montréal. Il 5 ottobre sarà aperta al pubblico al PAC di Milano. Nell’iter espositivo di questa tua retrospettiva, quali sono state le impressioni del pubblico, o dei media, che ti hanno colpito di più, nel bene o nel male?
La mostra al Jeu de Paume è stata allestita molto bene e devo dire che è stata una bellissima esperienza lavorare con la squadra di quel museo, dalla direttrice Marta Gili a ogni membro dello staff. Uno non sa mai fino in fondo come viene recepita la sua mostra ma, da quello che mi hanno detto, sembra che il pubblico abbia risposto molto bene. La stampa è stata positiva. Qualche volta capace di penetrare dentro il lavoro con commenti critici e riflessioni interessanti e qualche volta forse un po’ superficiale. Quella di un giornalismo superficiale e generico, fatto di copia e incolla e cliché per un consumo veloce, è ormai una malattia abbastanza diffusa.
Per tornare alla tua domanda sulle impressioni del pubblico con qualche esempio concreto, sono stato molto contento, per esempio, quando Marta Gili mi ha scritto che Didi-Huberman, un teorico e storico dell’arte che stimo molto, è rimasto entusiasta della mostra. Un altro momento bello è stato quando, qualche mese dopo l’inaugurazione, ritornando alla mostra, sono entrato nella sala dove era proiettato il video della performance The Encounter e ho visto una classe di bambini piccoli che la maestra stava mettendo in fila per farli uscire. Allora le ho chiesto se potevamo fare la performance direttamente al museo come nel video e mi sono messo in mezzo alla sala, di fronte alla proiezione, a stringere la mano a tutti i bambini che un po’ contenti e un po’ timidi si avvicinavano e mi dicevano uno dopo l’altro:“Bonjour”.
Da Vajtojca (2002) a The last gestures (2009) a The Encouter (2011), che cosa succede a chi vive vite in transito?
Vajtojca affronta il dialogo con la morte, con la propria morte attraverso il rito del lamento funebre. La finzione del rito incontra così il momento più drammatico della nostra esistenza, quello della scomparsa. The last gestures si focalizza sull’incontro tra la messa in scena rituale e la verità degli affetti. C’è un senso drammatico di abbandono e un misto di dolcezza e violenza in questo lavoro. The Encounter è basato sull’attivazione di un gesto semplice ma ricco sia di storia che di significati: la stretta di mano. Svolto in un luogo pubblico, cerca di attivare anche una dimensione collettiva.
Quali lavori recenti esporrai al PAC? Verranno installati progetti inediti o diversi rispetto alla mostra di Parigi?
La mostra al PAC sarà diversa da quella di Parigi, prima di tutto perché lo spazio è diverso e una mostra si fa sempre in dialogo con uno spazio. Non ci saranno lavori recenti rispetto al Jeu de Paume, ma ci saranno lavori inediti che si mostrano per la prima volta al pubblico.
Quali sono i gesti emblematici che rappresentano Vite in transito? Ritieni che la fotografia catturi meglio rispetto al supporto video l’istante del comportamento umano e dei suoi riti, oppure restano due media che restituiscono significati troppo diversi tra loro?
Restano due mezzi diversi, ma non troppo diversi, visto che tutti e due trattano l’immagine. Il video tratta l’immagine in movimento e la foto quella ferma e questo dà a ciascun mezzo le sue specificità espressive. Questa sicuramente è una divisione semplificata e può suonare banale, visto poi che ciascuno di questi mezzi è un universo con possibilità infinite. Non è nel gesto emblematico, penso io, che si nasconde l’essere in transito, ma proprio nella perenne e imprevedibile instabilità delle cose.
Durante una recente intervista tu affermi che alla fine vale sempre la pena di fare le cose, al di là dell’effetto che avranno. Ma quanti anni hai impiegato per sentire che le tue visioni erano state comprese e qual è stato il tuo lavoro maggiormente recepito come avresti voluto tu?
Ah, non ricordo di aver detto così… Sì, dipende cosa uno intende per effetto, ma comunque l’azione, la pratica del fare, sono per me importanti. Non saprei quantificare gli anni e neanche identificare il lavoro che meglio degli altri è stato recepito. Poi non ritengo che il massimo del successo per un lavoro sia quello di essere recepito così come l’autore abbia voluto. Spero sempre che i fruitori dei miei lavori trovino qualcosa che vada oltre alle mie aspettative.
Quale definizione daresti di semplicità?
Complessa ma non complicata.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Dopo la mostra al PAC ho in programma una mostra al Museo d’Arte Contemporanea di Montréal e poi a Roda Sten di Göteborg, tutte e due nel febbraio 2014. Intanto sto lavorando per una mostra di solo pittura per l’autunno prossimo.
Potresti formulare un augurio o esprimere desiderio sulla nuova tappa di Vite in transito?
La prossima tappa avviene a Milano, una città dove risiedo da molti anni. Le tracce che questa città ha lasciato nella mia esperienza e nel mio lavoro sono tante. Spero di restituirle qualcosa con questa mostra lasciando qualche traccia.
Ginevra Bria